Articolo di Matteo Scantamburlo
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Non si scopre certo ora come il Novecento letterario italiano sia stato segnato dalla costante influenza esercitata dall’America sui maggiori autori e critici delle varie generazioni,
passando dai primi americanisti – tra cui Emilio Cecchi – all’inizio del secolo, fino all’ondata postmoderna di fine anni ‘70. In mezzo, ovviamente, quel periodo del “mito americano” che tanto ha caratterizzato il ventennio neorealista, sostenuto dall’impegno di due figure di spicco come Cesare Pavese e Elio Vittorini, che con la pubblicazione di antologie e saggi e la traduzione di autori come Melville e Faulkner manifestavano, tra le altre cose, la loro opposizione alla politica di autarchia culturale del fascismo.
Proprio a Pavese, già grandissimo ammiratore di Whitman e del suo verso libero, si attribuisce il merito di aver portato in Italia il capolavoro di un altro dei maggiori poeti americani, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters,
la cui ingegnosa pubblicazione per Einaudi nel 1943 fu accolta con enorme entusiasmo dal pubblico. L’impatto fu forte e certamente duraturo, se si pensa che nel 1971 un pilastro della canzone d’autore italiana come Fabrizio De André adottò il testo come punto di riferimento per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo.
Proprio De André, che a sua volta nella sua produzione, soprattutto nella prima parte, fa spesso trasparire l’ammirazione per un illustre collega nordamericano come Leonard Cohen,
arrivando addirittura a proporre cover di sue canzoni tradotte in italiano (Suzanne, Giovanna d’Arco), decise in questo disco di dare una versione personale di nove poesie tratte dalla raccolta di Lee Masters, che per la loro inattualità non vennero riprese letteralmente come quelle di Cohen, bensì rielaborate da Fabrizio in maniera coerente alla sua poetica. Ad un ascoltatore ignaro di questo legame intertestuale, Non al denaro non all’amore né al cielo appare un “semplice” (e il virgolettato è obbligatorio considerata l’estrema qualità della fattura) album di cantautorato di inizio anni ’70, ed è proprio in questa riattualizzazione di testi passati che l’album trova una delle sue maggiori qualità, sottolineata anche dalla traduttrice in italiano dell’Antologia, Fernanda Pivano, durante un’intervista al cantautore genovese.
De André ricava dai personaggi di Lee Masters temi adatti al tempo e che sente appartenere anche a lui,
adattandoli alla realtà in cui vive e creando ritratti di vizi e virtù umane, espresse nel disco attraverso le sue due tematiche principali, l’invidia e la scienza, entrambe rappresentate come portatrici di conseguenze pericolose, ma altresì superabili positivamente, come dimostrato rispettivamente nei brani Un malato di cuore e Il suonatore Jones, posti alla conclusione delle due metà in cui il disco è concettualmente diviso.
Da queste due parti risulta slegato il prologo del disco, La collina,
riscrittura quasi esatta della prima poesia dell’Antologia, in cui il cantautore introduce il concept dell’album presentando il luogo in cui i sepolti di Spoon River riposano, morti chi in guerra, chi di malattia, chi d’amore. La collina diventa immagine di un microcosmo distante dalla società in cui i personaggi riescono da morti a raccontare e raccontarsi con una sincerità che da vivi non erano capaci di esprimere in quanto costretti da fattori esterni a pensare il falso.
Il fine dell’album risulta quindi per prima cosa l’indagine dei sentimenti umani,
priva dei riferimenti storico-politici che caratterizzano altri lavori del cantautore e volta principalmente allo studio dell’interiorità dei personaggi.
L’analisi di De André inizia nella seconda traccia, Un matto, storia di un uomo che, ritenuto pazzo e isolato dai suoi compaesani per la sua incapacità di esprimere attraverso il linguaggio i suoi pensieri, è spinto dall’invidia a imparare a memoria la Treccani in cerca di “parole sicure” ma finisce per essere rinchiuso in manicomio. È solo dopo la morte che il matto diventa capace di trovare e addirittura inventare parole, una “luce” nei pensieri che non può però sostituire quella, rimpianta, del sole, sotto la quale non è mai stato capace di esprimere il “mondo” che ha nel cuore agli invidiati abitanti del suo villaggio, che infatti anche dopo la sua dipartita lo ricordano ironicamente e con distacco.
In questo brano l’invidia spinge dunque a un tentativo di miglioramento personale che non riesce però a vincere il senso di impotenza provato dal “matto”.
Nel successivo, Un giudice, essa è invece il sentimento che alimenta il desiderio di vendetta del protagonista,
un uomo deriso da tutti per la sua bassa statura («la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo») e che spinto dal rancore studia per diventare giudice, «arbitro in terra del bene e del male». Ottenuta dunque questa autorità l’uomo prova «piacere» nell’affidare al boia le persone che prima gli mancavano di rispetto (chiamati «giants» da Masters nella rispettiva Judge Selah Lively per evidenziare il ribaltamento dei ruoli tra oppressori e oppressi), diventando dunque «carogna» per davvero, a causa di tutte le cattiverie subite nella vita; alla fine il giudice dovrà però inchinarsi a un’autorità maggiore della sua e davanti alla quale tutti hanno la stessa statura, quella di Dio.
Proprio questa conclusione religiosa segna un’aggiunta fondamentale rispetto alla poesia dell’Antologia, ed è soprattutto nella seguente Un blasfemo che il cantautore esprime un’idea originale rispetto al testo di ispirazione.
Il presupposto di partenza è lo stesso, con De André che riprende dall’epitaffio di Wendell P.Bloyd la storia di un uomo ucciso da guardie cattoliche per aver denunciato la menzogna di Dio, reo, secondo lui, di aver costretto Adamo a una «vita da scemo» («the life of a fool») in un Eden che gli nascondeva il bene e il male del mondo. Tuttavia se in Masters la possibilità di conoscenza, indicata dalla «mela proibita» , è detenuta da Dio e contro esso sono rivolte le accuse del blasfemo, per Faber il vero oppressore diventa non la religione in sé, ma la società che la impone, in un’interpretazione per la quale il giardino incantato risulta in realtà terrestre e la mela ancora intatta nelle mani dei detentori del potere. Questa aggiunta segna forse l’unico momento dell’album in cui l’autore lascia una firma del suo pensiero, ragionando su temi effettivamente sociali, e contribuisce a rendere molto suggestivo il brano, impreziosito peraltro da un arrangiamento più raffinato rispetto ai precedenti ed elevato dall’uso degli archi e dei flauti.
Suoni simili rimangono protagonisti anche nella canzone che chiude la prima parte del disco, Un malato di cuore,
nella cui commovente delicatezza si cela la chiave di volta della sezione dedicata all’invidia: se questa infatti aveva indotto un matto a imparare un vocabolario a memoria, un giudice a diventare tale per vendicarsi di chi l’aveva umiliato e un blasfemo (definito «esegeta dell’invidia» da De André nella già citata intervista) a cercarne la causa fino a trovarla in Dio, qui la malevolenza viene scavalcata grazie a un altro sentimento, l’amore. In effetti il malato avrebbe i suoi buoni motivi per essere invidioso, lui che non può giocare con i suoi coetanei e neanche «bere alla coppa d’un fiato» a causa dei suoi problemi di cuore, ma è costretto a farsi «narrare la vita dagli occhi».
Tuttavia proprio mentre la storia sembrerebbe poter prendere la piega delle precedenti, essa subisce una svolta improvvisa grazie alla scoperta dell’amore,
che regala al ragazzo una gioia talmente autentica e sconvolgente da risultare l’ultima della sua vita. Il povero cuore del malato non riesce infatti a sostenere l’emozione del bacio, unica azione raccontata con chiarezza in mezzo alla nebulosità del ricordo, e si spegne sulle labbra della ragazza («Ma che la baciai, questo sì, lo ricordo, col cuore ormai sulle labbra, ma che la baciai, per Dio sì, lo ricordo, e il mio cuore le restò sulle labbra»), mentre la sua anima prende il volo leggera, libera da quell’invidia che è finalmente riuscita a scavalcare («Kissing her with my soul upon my lips, it suddenly took flight» nella splendida Francis Turner di Masters).
Con questo lieto fine si conclude la metà del disco incentrata sull’invidia e subentra quella che ha come argomento centrale la scienza.
Non per nulla la sesta canzone dell’album è intitolata Un medico e tratta di un uomo che fin dall’infantile e innocente desiderio di curare le foglie cadute degli alberi coltiva la sua passione per la medicina, arrivando a fare il dottore gratuitamente, senza voler «tradire il bambino per l’uomo». Tuttavia il medico scopre «che la scienza non puoi regalarla alla gente, se non vuoi ammalarti dell’identico male», e, diventato povero come i suoi pazienti, si ritrova costretto a inventare una pozione miracolosa, ma viene scoperto e arrestato, diventando agli occhi di tutti un «truffatore imbroglione» nonostante le sue nobili intenzioni.
Se questa canzone rappresenta dunque un tentativo di portare la scienza al servizio del bene comune, Un chimico racconta invece di un uomo che nella scienza si rifugia per sfuggire ad un mondo che non ha mai capito, quello dell’amore.
l protagonista guarda infatti con incertezza alle unioni generate tra i suoi simili da questo sentimento, ben più incerte rispetto a quelle ottenibili dai suoi amati elementi, e nota, con pragmatismo da vero uomo di scienza, che non c’è differenza tra una morte normale e una d’amore; la conclusione di questa storia è piuttosto ironica dato che il chimico, tanto restio a cedere all’insicurezza di una relazione amorosa, muore in un esperimento sbagliato, «proprio come gli idioti che muoion d’amore».
Terzo e ultimo uomo di scienza dell’album è poi Un ottico, personaggio talmente ambizioso da voler superare i confini della reale visione umana con delle lenti pensate per dei «clienti speciali» affinché «le pupille abituate a copiare, inventino i mondi sui quali guardare». Il punto di vista passa dunque da quello dell’ottico alle visioni deliranti e surreali dei clienti, le cui descrizioni sono perfettamente accompagnate da un arrangiamento altrettanto distorto, senz’altro uno dei momenti di sperimentazione più spregiudicati di tutta la carriera di De André.
Dunque dopo il medico-Prometeo, il chimico insensibile e l’ottico sperimentatore,
tutti mossi da un comune senso di insoddisfazione, la seconda sezione è chiusa da un personaggio totalmente al di fuori del circuito scientifico, Il suonatore Jones, che spicca rispetto ai tre studiosi poiché risolve i suoi problemi esistenziali limitandosi a fare ciò che gli piace. «È uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti», ha detto il cantautore a Fernanda Pivano, e ancora: «Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa, ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà» – dichiarazioni che contribuiscono a rendere la canzone, già splendida di per sé, un highlight assoluto dell’album che va a chiudere. Ed è una chiusura bellissima, che si collega a quella del “malato di cuore” nel trionfo della semplicità di un uomo che, nella sua limitatezza, guarda alla propria vita contento di ciò che ne ha fatto, di aver seguito con serenità il suo divertimento offrendo «la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo».
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