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Black Country’s New Road: “Forever Howlong” tra conferme e sorprese

Matteo Scantamburlo è nato e vive a Milano, dove studia Storia e Critica dell’Arte all’Università Statale. Membro del Liberty fin dagli inizi, sul sito ha scritto, scrive e scriverà per raccontare le sue passioni e per creare divulgazione, convinto della necessità di vivere un rapporto attivo con la cultura.

Silenzioso, sebbene assai atteso, mi è parso essere stato il rilascio di Forever Howlong, terzo album in studio dei Black Country, New Road, almeno presso certi circoli di discussione musicale da me frequentati, dove in altri periodi un’uscita del genere sarebbe stata accolta con altra curiosità, oltre che con maggior entusiasmo. Sì perché i Black Country, New Road – uno di quei nomi contraddistinti dall’essere praticamente sconosciuto al pubblico di massa e contemporaneamente arcinoto, tanto da dar quasi fastidio, presso certi ambienti dell’underground più contemporaneo – si presentano al varco con il primo album in studio senza il frontman Isaac Wood, uscito dal gruppo nel 2022, appena prima dell’uscita del fortunatissimo Ants From Up There; era dunque più che giustificata una certa trepidazione nel vedere come si sarebbero evolute le cose. Forever Howlong non è però il primo progetto rilasciato dai BCNR 2.0, che già nel 2023 avevano svelato la loro nuova veste nel delizioso Live at Bush Hall, capitolo intrinsecamente fugace per la forma stessa dell’album dal vivo ma in cui non mancavano momenti di poesia sommessa e per questo commovente. Soprattutto, in questo live parevano già poste le premesse per il continuo della band: polistrumentismo diffuso, alternanza nel ruolo di cantante, dipartita definitiva dalle sonorità post-punk degli inizi, mantenimento di un’ironia ormai tipica utile a stemperare le digressioni più umbratili, pur presenti. 

Insomma tutto questo preambolo sembra voler giungere a un momento di inversione in cui si negano i presupposti appena elencati, ma in realtà tutto risulta pienamente confermato in Forever Howlong. La direzione musicale seguita dalla band in quest’album è infatti proprio quella preannunciata dal live, ossia quella di un sound teso agli indirizzi del pop barocco, talvolta con uno sguardo a quello soleggiato, positivo e a suo modo incalzante degli anni Sessanta, ma con un occhio di riguardo anche per quello fiabesco, introspettivo e spiccatamente cantautoriale tipico di autori e autrici del nuovo millennio – Joanna Newsom, per fare un nome. Dunque ecco i fiati, gli archi, le preziose orchestrazioni, ma mai un manierismo, perché più volte emerge quella tendenza tipica, e credo unica, dei Black Country, New Road a innestare sopra questi arrangiamenti di grandissima qualità momenti di puro divertimento, fatti di testi semplici, nei quali il gruppo sembra voler far di tutto per non prendersi troppo sul serio. 

Questo succede nelle prime due canzoni dell’album: in Besties si esagera, perché il rischio di prenderla come una canzonetta c’è e forse è pure giustificato in parte, ma in The Big Spin l’equilibrio è riuscito e delicato, forse perché la leggerezza convive con un velo di malinconia che ben si accorda alla voce che si incontra nella terza traccia. Se infatti la prima coppia di brani spetta rispettivamente a Georgia Ellery e May Kershaw, Socks porta la firma di Tyler Hyde, che si conferma l’interprete più toccante e passionale all’interno di questo tridente vocale tutto al femminile, con quel suo timbro basso e garbato che in questo brano si esprime in maniera davvero commovente, soprattutto negli ultimi due minuti, così ricchi di colore. È un pezzo intimo, dove il resto della band non si esibisce nella solita esibizione corale ma rimane sullo sfondo, impreziosendo la struttura pianoforte-voce con sapienti tocchi di chitarra, sassofono e violino, dimostrando – anche in una canzone dal carattere maggiormente individuale – l’estrema coesione musicale del complesso. 

È forse questa la peculiarità più evidente di questo album. Qui più che mai, infatti, i musicisti sembrano procedere nella stessa direzione e lavorare insieme, tanto che non importa chi canti o chi scriva i testi, essendo il tutto al servizio di un progetto che si intuisce essere condiviso; e in questa prospettiva non sorprende che il mood dell’album sia spesso allegro, soprattutto nella prima metà, piena di gioia. Ovviamente non sempre, giacché un gruppo di tale sensibilità e inclinazioni artistiche non potrebbe (né dovrebbe) sostenere l’onere di un disco interamente allegro. Dunque, ecco in Two Horses un brano di amore sognato, accarezzato e infine irrimediabilmente frustrato, dove l’incedere delle parole corrisponde brillantemente a quello della musica, prima calma, poi arrembante, in piena cavalcata, e poi di nuovo addomesticata (e che delizia, quel mandolino all’inizio!). Anche qui, come già in Socks, i momenti più alti sono quelli più lenti, dove affiorano – specialmente nella chitarra – le influenze folk della band, che poi trovano il loro compimento in Mary, cantata totalmente all’unisono dalle tre cantanti in un inedito momento di armonizzazione vocale. Non credo che questa sia la canzone più bella del disco – anche perché quel titolo, come vedremo, spetta a un’altra difficilmente raggiungibile – ma è sicuramente quella che più mi ha fatto piacere sentire, poiché è da quando ho sentito Live at Bush Hall che auspico una maggior collaborazione tra le voci all’interno della stessa canzone, sul modello del grande baroque pop degli anni Sessanta. Qui l’esperimento riesce senz’altro, ma non tanto nella direzione da me immaginata, dato che la band qui sembra piuttosto guardare al grande cantautorato nordamericano degli anni Settanta: uso della steel guitar che non può non far venire in mente Neil Young, cori appassionati che sembrano provenire dal portico di una casa rurale, linee vocali di cullante malinconia; il momento più tradizionale del disco, e che momento.

Fin qui il prodotto è buono, con canzoni molto convincenti ma anche brani meno a fuoco, comunque si tiene su una linea piuttosto continua, ma sono le tracce 8 e 9 a far saltare davvero il banco. Entrambe in realtà già conosciute, perché For the Cold Country è stata rilasciata come terzo singolo prima dell’uscita del disco e perché Nancy Tries to Take the Night è ormai da due anni una presenza stabile in scaletta durante i concerti, ma è chiaro che sentirle all’interno di un album gli faccia acquisire una diversa pregnanza.

Qui emergono i Black Country, New Road ambiziosi, quelli che mettono da parte gli strumenti dell’ironia e della leggerezza e accettano di essere pesanti, e per questo grandi. For the Cold Country è costruita su un ritmo simile a quello di Two Horses, a scatti e riprese, ma la materia narrata, ossia la storia di un cavaliere errante attanagliato dal rimorso e dalla colpa, dà  spazio a una riflessione esistenziale che tinge la voce di May Kershaw di sfumature mai così vibranti, di una tonalità mai così grave. È una storia di impotenza, di tragica insoddisfazione, sentimenti che giustamente esplodono nel grandioso finale, dove la voce della cantante lascia il posto a un caos da Giudizio finale, turbine di fiati e percussioni, per poi ritornare in scena all’interno di un grande coro, sublimata, a sancire epicamente la fine del triste cavaliere.

Il vero picco però lo si trova in Nancy Tries to Take the Night, brano che rappresenta, io credo, non solo il prodotto più alto di questo album, ma di tutta l’arte dei Black Country, New Road 2.0, che mai come altrove qui arrivano a esprimersi con il linguaggio della fiaba contemporanea. La materia infatti – la gravidanza indesiderata di una donna, la sofferenza che essa le causa e il suicidio a cui tutto ciò conduce – porta con sé la gravità e la serietà tipiche di un fatto di cronaca, ma la modalità narrativa pone il racconto nel reame dell’indefinitezza, del c’era una volta, e lo fa in maniera tanto ispirata e poetica da rendere calzante il confronto con l’arte da cantastorie di Joanna Newsom, che a sua volta nell’incredibile Emily ha esplorato la tematica del parto nelle sue implicazioni più dolorose.

Come in Emily, anche in Nancy Tries to Take the Night l’arrangiamento gioca una parte fondamentale: l’intro, lunghissima, è un intreccio di chitarre di estrema raffinatezza e fa da base portante per l’aggiunta di tutti gli altri strumenti, prima il violino, poi il banjo, poi ancora la batteria e soprattutto il sassofono, che detta il cambio di ritmo. Prende dunque vita questa melodia da corte medievale, che forse non sfigurerebbe come sottofondo di un poema cavalleresco, ma la materia è altra, vera e cruda, e incredibilmente il tutto funziona, ultimo ma non ultimo il finale, ovviamente non esuberante come quello della canzone precedente ma mesto e sconsolato, come ogni fiaba che finisce male.

Se c’è un appunto da fare alla band riguardo a questi due brani riguarda solo il loro posizionamento nella tracklist, poiché dopo tutto questo pathos si fa un po’ fatica a concentrarsi sugli ultimi due brani, che scorrono in maniera abbastanza anonima, quasi senza farsi notare; quanto sarebbe stato bello, invece, avere quei due capolavori in chiusura del disco, andando in qualche modo a replicare l’epico finale di Ants From Up There, con l’indimenticabile trittico The Place Where He Inserted the Blade – Snow Globes – Basketball Shoes! A dire il vero, gli stessi BCNR sembrano essere del mio stesso parere, dato che nella “Collector’s Edition” dell’album le ultime due tracce sono proprio Nancy Tries to Take the Night e For the Cold Country.Tutti contenti insomma, almeno io, che in Forever Howlong ho trovato la conferma di ciò che già avevo creduto sentendo Live at the Bush Hall: il nuovo corso dei Black Country, New Road è ben avviato e la loro creatività è ben lungi dallo spegnersi. Non si può dire che la perdita di Isaac Wood sia stata indolore – come rimpiazzare, d’altronde, la tremante vitalità della sua voce, la potenza icastica della sua scrittura? – ma è proprio quando è un membro così importante a lasciare che la cosa migliore da fare è cambiare direzione artistica. È forse, questa, una direzione che gli farà perdere il favore di una certa critica e il seguito di un certo pubblico, ma se succederà sarà senz’altro per questioni di sonorità, di gusto insomma, piuttosto che per mancanza di onestà artistica o per uno scadimento nella qualità. Alla luce di ciò, conterà poi tanto qualche voto in meno sui siti specializzati?

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