Articolo di Maya Taronna
13/03/95: da ormai otto anni questa è la password del mio telefono. Data di nascita di mia sorella? Compleanno della migliore amica? Numeri casuali? No, niente di questo. Si tratta del giorno del rilascio di un capolavoro di uno tra i gruppi più apprezzati dagli amanti della musica, The Bends dei Radiohead. Sull’onda del successo ancora fresco del loro primo EP, Pablo Honey, i Radiohead si affermano nel panorama musicale con un album che posso solo definire perfetto. Ancora lontano dall’elettronica che comparirà nella loro produzione successiva, The Bends diventa un pilastro del brit rock e simbolo di una generazione musicale sui generis, quella dei giovani degli anni Novanta, fortunati fruitori del grunge di Kurt Cobain e del britpop dei due fratelli Gallagher.
La copertina diventa subito iconica: un manichino per la rianimazione cardio-polmonare, fotografato attraverso uno schermo, che già suggerisce la dissonanza di fondo che verrà poi esplorata nelle varie tracce dell’album. D’altronde il titolo, The Bends, sta ad indicare il disturbo provato dai sub quando riemergono in superficie troppo velocemente. Musicalmente ce n’è per tutti i gusti, dalla potenza quasi fastidiosa della chitarra di My Iron Lung fino alla melodia più lenta e cullante - decisamente ingannevole - di Bullet Proof..I Wish I Was. L’album è anticipato da un singolo che si merita il primo posto nella mia lista di canzoni “pugno in faccia”, il cui semplice ascolto provoca dolore fisico: Just. Piena di suoni striduli e dissonanti, la canzone si rivolge direttamente all’ascoltatore e gli sputa tutta la verità in faccia, accusandolo di essere l’origine di tutti i suoi problemi. Unica nel suo genere, lascia l’amaro in bocca, come solo i Radiohead sanno fare.
The Bends va ascoltato per intero, dall’inizio alla fine, e senza distrazioni: canzoni come High and Dry, Black Star e Street Spirit (Fade Out) non possono essere lasciate indietro, ma è su una traccia in particolare che mi voglio soffermare, una di quelle canzoni assenti da tutte le mie playlist perché da proteggere, conservare, e utilizzare soltanto in pochi momenti speciali: Fake Plastic Trees. Thom Yorke si accorge della falsità che domina il mondo a lui circostante e cerca disperatamente qualcosa di vero - l’amore di una donna che sembra diversa, appare diversa, parte di quella realtà nascosta sotto la superficie delle cose, ma è in fondo tanto falsa e plasticosa quanto tutte le altre persone. Nel video musicale Thom Yorke vaga in un supermercato completamente artificiale, pieno di persone altrettanto artificiali, false e vuote, cercando qualcosa di reale che, però, non trova. “If I could be who you wanted, all the time…” così il frontman conclude, con un sussurro, questa poesia, sognando di integrarsi nella finzione degli altri che, per nostra fortuna, non gli appartiene. Si dice che Fake Plastic Trees sia stata composta a seguito di un periodo di blocco creativo, superato anche grazie alla visione di un concerto di un altro pilastro della musica degli anni Novanta, venuto a mancare troppo presto: Jeff Buckley. A quanto pare Thom sarebbe tornato a casa e, ispirato, avrebbe scritto in un colpo la canzone, per poi cantarla e cadere sulle proprie ginocchia e piangere.
Vorrei concludere dando il giusto riconoscimento ai b-sides di The Bends, canzoni scartate, dimenticate, inserite in altri progetti, la cui sconvolgente bellezza lascia l’ascoltatore a bocca aperta: The Trickster, Maquiladora, Killer Cars, Talk Show Host - comparsa nella magnifica colonna sonora di Romeo + Giulietta, colpo di genio del regista Baz Luhrmann - e Banana Co. Questi sono solo alcuni dei miei titoli preferiti, ma ciascuno di essi merita un attento ascolto: fidatevi di me, lasciatevi cambiare la vita dai Radiohead.
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