Capriccino

Racconto di Silvia Pamio

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Gregorio percorreva al tramonto la strada che taglia in due la Val Belluna. Rettilineo, filava dritto tra i versanti indorati delle montagne. Non aveva nessuno davanti, nessuno alle spalle e con i finestrini alzati l’unico suono udibile era il brontolio costante del motore della sua Polo bianca. Gregorio non ascoltava musica in macchina per antica abitudine. Ossequiava senza riconoscerlo i viaggi estivi della sua infanzia, le ore lunghe e mute perché «quell’orribile ronzio» della radio faceva venire il mal di testa a sua madre, il cui volto lungo e giallastro galleggiò ora nell’auto per qualche istante, richiamato da dilatate lontananze. Era morta da anni, Gregorio la ricordava senza calore e senza astio, seduta accanto al sedile del guidatore, gli occhi alla strada e le labbra strette. Il bambino la vedeva nello specchietto retrovisore destro, giocava a farla voltare con lo sguardo, ma per quanto si concentrasse a strizzare le palpebre, come gli avevano insegnato nel cortile della scuola, lei sembrava non accorgersene mai. Forse lo sguardo riflesso era in ogni caso meno efficace, stabiliva Gregorio, perché, quando tentava con le sue compagne di classe, otteneva puntualmente una boccaccia. Oppure il fatto era, disquisiva ancora dopo aver puntato dritto il capo materno, che anche le compagne come la maestra avevano gli occhi dietro la testa, mentre sua madre no.
Gregorio, ora al posto del guidatore e vuoto il sedile laterale, lasciò pigramente sbiadirsi il ricordo e tornò a guardare la strada. Lo confortava trovarla vuota, senza ostacoli al suo ritorno a casa, dove sarebbe affondato nel torpore che lo lambiva. Oltrepassava il limite di velocità di qualche tacca, e l’avanzamento uniforme, senza accelerazioni né brusche frenate, gli procurava un piacere igienico, rinfrancante. Poiché la strada era sgombra, e dritta, Gregorio notò ben presto un puntolino blu all’orizzonte che si faceva tratto tratto più grande. Si trattava di una Toyota blu che pareva procedere alla stessa velocità assennata cui guidava lui, e per capriccio si provò a prevedere in quanto tempo sarebbe avvenuto l’incontro. Le due vetture, la bianca e la blu, si sarebbero incrociate non distanti dal curvone che sboccava fuori, verso la pianura.
Gregorio scandiva i secondi: quando le due automobili si affiancarono, era trascorso tempo sufficiente a che egli, mentre procedeva la sua conta recondita, ricamasse sugli occupanti possibili della vettura. Il pronostico in ogni caso era stato piuttosto accurato e Gregorio si congratulò con sé stesso per non più di una frazione di secondo… prima che l’abitacolo della Toyota blu gli facesse accapponare la pelle. Una famiglia con un solo figlio, un bambino seduto dietro nel posto a destra, padre al volante e madre al fianco. Erano gente ordinaria, ma l’intollerabile dell’istantanea aranciata che la luce impresse nella mente di Gregorio stava negli occhi, occhi che i genitori, nei posti davanti, tenevano inequivocabilmente chiusi. L’uomo portava il capo reclinato su una spalla, nella posa consueta di chi si addormenta su un sedile, ma teneva ancora il volante e la traiettoria. Solo sveglio il bambino, di cui Gregorio intercettò l’occhiata interrogativa, quasi avesse giocato anch’egli a indovinare il passeggero.
Serenità terribile, i volti adulti lisciati dal sonno e quello vispo appuntito del bambino ignaro, vorticarono i pensieri di Gregorio. Fu preso dal rimorso atroce di non aver suonato il clacson, ma d’altronde come avrebbe potuto reagire a tempo a quel flash materializzato in visione, che si prolungava tuttavia nella sua retina come la pellicola di un cinematografo inceppato? Girare l’auto, inseguirli! Ma chi gli diceva che il brusco risveglio imposto dal clacson non avrebbe spaventato il guidatore, assegnando tutti ugualmente a morte certa? E il bambino! Ah, lo sguardo di quel bambino, conosciuto fino a dolerne… Girare, girare la macchina. Perlomeno per chiamare i soccorsi, se già aveva agito l’inevitabile. Sarebbe più riuscito a scordare la scena che si preparava, la macchina fumante, ridotta a un rottame, le membra spezzate del bambino galleggianti, sospinte lievemente verso l’alto…?
La frenesia onirica muoveva gli occhi di Gregorio rapidissimi dietro le palpebre abbassate, e quando i raggi del sole si accomiatarono estremamente dalla valle, egli si andò con dolcezza a schiantare contro il guardrail del curvone che sboccava fuori, verso la pianura.