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Spiderland: la ragnatela di un capolavoro

Matteo Scantamburlo è nato e vive a Milano, dove studia Storia e Critica dell’Arte all’Università Statale. Membro del Liberty fin dagli inizi, sul sito ha scritto, scrive e scriverà per raccontare le sue passioni e per creare divulgazione, convinto della necessità di vivere un rapporto attivo con la cultura.

La musica, come è noto, la si percepisce in maniera diversa a seconda del periodo in cui la si ascolta.

Un disco o anche una sola canzone possono assumere una rilevanza particolare se sentiti durante un momento della vita dell’ascoltatore particolarmente adatto al mood di questi brani o sensibile ai temi trattati in essi.

Non è un caso infatti che la notte del 28 marzo scorso,

mentre contavo nel mio letto i minuti che mi separavano dal compimento dei 18 anni, l’unica melodia che mi risuonasse nella mente fosse quella di Washer degli Slint, quarta traccia di quel capolavoro di Spiderland,che proprio il giorno prima di anni ne aveva compiuti 30; un’età considerevole per un album che dietro i suoi temi più espliciti, come l’alienazione sociale o l’amore, ne cela uno più nascosto, ma altrettanto fondamentale, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

Un passaggio che il disco, nelle sue sei tracce, percorre in maniera sinistra,

tra arpeggi ripetuti quasi ossessivamente e testi criptici e cupi, alternando momenti in cui sembra quasi distaccarsi dal mondo reale rifugiandosi in questa “terra dei ragni”, in un immaginario popolato da vampiri e navi pirata, a rappresentazioni tanto dure quanto realistiche dei lati più oscuri della realtà di ogni giorno.

Questa breve successione di brani, pur senza creare una storia ben definita, sembra far parte di una narrativa comune,

invocata anche dal frequente uso dello spoken word nelle parti vocali, come nell’inizio di Breadcrumb Trail, che apre il disco a mo’ di prologo grazie alle complesse ritmiche dei suoi arpeggi e, appunto, alla voce narrante che costituisce il cantato, che diventa però estremamente intenso nei ritornelli. Il brano racconta una storia piuttosto singolare, il cui protagonista è un ragazzo che, cercando una nave pirata in un luna-park, ambientazione tanto insolita e infantile quanto innocente, si imbatte in una chiromante, insieme alla quale prova l’ebrezza delle montagne russe; Breadcrumb Trail è il primo amore, sperimentato con la spontaneità e l’adrenalina dell’adolescenza e vissuto in tutta la sua intensità come, appunto, delle montagne russe (“Creeping up into the sky, stopping at the top and then starting down, the girl grabbed my hand, I clutched it tight, I said goodbye to the ground”).

Musicalmente il pezzo risulta straordinario nel suo alternarsi tra arpeggi math rock nella parte narrata e riff distorti nelle parti cantate,

proponendo in entrambi i casi cambi di tempo improvvisi e ritmiche degne delle migliori band progressive, ma lasciando anche una lieve sensazione di inquietudine e disagio, apparentemente in contrasto con il tema gioioso del brano ma perfetta per introdurre l’ascoltatore al disco, dato che non lo abbandonerà mai per tutta la sua durata.

Un’atmosfera ancora più sinistra è infatti quella che caratterizza la seconda canzone,

Nosferatu Man, brano meno interessante del precedente per quanto riguarda il testo ma altrettanto potente nella sua componente musicale, formata da un riff tanto dissonante da risultare quasi grottesco, che incarna perfettamente l’immaginario gotico della canzone, e da un ritornello aggressivo che, pur presentando tempi ritmici piuttosto complessi, fa emergere le radici punk della band, evidenti anche nella sequenza di accordi che chiude il pezzo.

Brano praticamente opposto è Don, Aman,

surreale monologo in spoken word accompagnato unicamente da una tetra progressione di accordi che diventa sempre più veloce con l’avanzare della canzone: in questo manifesto di alienazione l’ascoltatore viene accolto nei pensieri di Don, un ragazzo incapace di interagire con i suoi coetanei ad una festa e completamente sovrastato dalla sua ansia sociale. Il brano è raccapricciante nel descrivere la sensazione di inadeguatezza che Don prova percependo gli sguardi delle persone presenti alla festa riversarsi criticamente su di lui, turbamento espresso tramite metafore ambigue ma dalla potenza espressiva clamorosa (“Like swimming underwater in the darkness, like walking through an empty house speaking to an imaginary audience and being watched from outside by someone without a key”), straordinarie nel descrivere il disagio del protagonista, che, dopo aver constatato l’impossibilità di cambiare la sua situazione, decide di tornare a casa ridendo di se stesso, ma sentendosi finalmente in pace.

Si passa dunque alla già citata Washer, canzone introdotta, sorretta e conclusa da un arpeggio trascendentale,

maestoso, avvolgente, che pur venendo ripetuto praticamente senza variazioni per i quasi nove minuti del brano sembra sempre aggiungergli qualcosa di nuovo, senza stancare mai l’ascoltatore, avvinghiato in questo brano di addio, rivolto non solo al soggetto dal quale il narratore si sta separando ma anche alla vita.

Washer è infatti l’ultimo canto di una persona che si rivolge a un suo caro,

difficile dire con chiarezza se una ragazza o meno, rassicurandolo sul futuro che verrà e stimolandolo a farsi forza e andare avanti (“Wash yourself in your tears and build your church on the strenght of your faith”), creando un clima di una tragicità sempre crescente che culmina con l’ingresso di un grandioso assolo, breve ma intensissimo, che rompe la ripetitività dell’arpeggio e incarna il messaggio catartico della canzone, per poi lasciarla ricadere improvvisamente in balia dell’arpeggio, che sfumando la accompagna alla conclusione. Segue poi For Dinner…, pezzo strumentale minimalista ma efficace che prepara il terreno per il gran finale dell’album, Good Morning, Captain, brano dal sapore coleridgiano in cui viene presentata la figura di un “capitano”, unico membro della sua ciurma sopravvissuto al naufragio che ha distrutto la sua barca, nelle macerie della quale l’uomo vede un bambino in cerca di aiuto.

Queste allegorie rappresentano il culmine della narrativa di Spiderland:

la nave, oggetto della ricerca del ragazzo in Breadcrumb Trail, rappresenta infatti la gioventù ormai passata del capitano, travolta da una tempesta che raffigura lo sconvolgente passaggio dall’adolescenza all’età adulta, mentre il bambino simboleggia proprio il capitano da giovane; tra i due si instaura un dialogo, inizialmente legato alla storia del capitano, che si scusa con quello che sembra essere suo figlio per aver scelto il mare a discapito della famiglia, ma che poi assume tratti molto più universali nel finale, in cui la canzone esce completamente dai binari con gli esasperati “I miss you” del cantante Brian McMahan, che grida quasi come se fosse posseduto, in una performance vocale completamente diversa da ogni altra cosa sentita nell’album.

Nel grido di McMahan viene riversata tutta la tensione accumulata nel corso dell’album,

è un urlo di sfogo, un urlo catartico, l’urlo generazionale di un ragazzo incapace di metabolizzare il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta e che rivolge alla sua giovinezza l’ultimo saluto; in questo urlo c’è tutto Spiderland, anche considerando la popolare diceria secondo cui il cantante abbia avuto una crisi e sia stato portato in ospedale dopo questa performance, ebbene Spiderland è anche questo, e Good Morning, Captain è la chiusura perfetta, che conferisce l’immortalità a questo disco fondamentale, che ancora oggi, pur non essendo più un ragazzino, continua ad essere il modello da seguire per chiunque voglia portare sperimentazione nel rock, e per questo non potrà mai invecchiare.


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Una risposta

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