Recensione di Enrico Liverani
TEMPO DI LETTURA 7′
Era il 1994 quando Luciano Ligabue pubblicava l’album da cui è stato mutuato il titolo di questo articolo,
ma in questa sede non si parlerà di musica, bensì si cercherà di analizzare il modo in cui tre registi e altrettanti film hanno messo in scena quella che forse è la paura più atavica e profonda dell’uomo: la fine del mondo, appunto. Fin dall’alba dei tempi, infatti, l’ominide (poi homo sapiens sapiens) ha temuto che tutto ciò che conosceva potesse scomparire sia per cause naturali sia, come la religione teorizzerà più avanti, per punire i peccatori o per purificare la Terra L’essere umano aveva paura, eppure – paradossalmente – il mondo non è mai stato così vicino alla fine come in quest’epoca che stiamo vivendo e in cui forse abbiamo smesso di avere paura. Ma di questo parleremo più avanti.
Comunque il miglior modo per esorcizzare la paura, si sa, è rappresentarla e questo articolo vuole confrontare la messa in scena della fine del mondo in tre opere filmiche (e in tre epoche molto diverse).
PARTE PRIMA: ARRIVA LA BOMBA
Trent’anni esatti prima che uscisse il disco di Ligabue di cui sopra, venne realizzato il primo film della nostra rassegna. L’anno, ovviamente, era il 1964, lo stesso dell’esordio dei Rolling Stones, della prima vittoria italiana all’Eurofestival, della prima Champions dell’Inter e dell’uscita di Mary Poppins in tutti i cinema. Ed è anche il primo anno di Lyndon B. Johnson alla Casa Bianca e per lo sventurato presidente è un periodo nero: dalle tensioni con il movimento di Marthin Luther King Jr. alla guerra in Vietnam, la tensione in America è ai massimi, ma non è nulla in confronto ai rapporti con l’URSS. Con l’elezione del nuovo segretario Leonid Brežnev, infatti, la Guerra Fredda è scesa a temperature polari e lo spettro della Bomba H incombe a livello psicotico sugli Stati Uniti.
E di psicosi si parla nel film di Stanley Kubrick Il dottor Stranamore (ovvero: Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba) tratto dal romanzo Red Alert, uscito nel 1958. Nel suo lavoro Kubrick esaspera la paranoia e l’indole guerrafondaia che stava dilagando negli USA in una satira feroce che trova il suo apice nel personaggio del generale Jack D. Ripper (gioco di parole intraducibile per Jack the Ripper, cioè Jack lo Squartatore), il quale decide di sferrare un attacco nucleare sulla Russia perché convinto che la sua impotenza sessuale sia dovuta ad un complotto chimico ordito dai “comunisti” per colpire “la linfa vitale americana”. Partendo da questa premessa, il film si articola in tre trame: Ripper barricato nella sua base con il colonnello Mandrake che cerca di fermarlo, il presidente Merkin al Pentagono con gli altri generali per scongiurare la crisi e il maggiore Kong, a capo del primo bombardiere diretto verso la base missilistica di Laputa. Dopo svariate peripezie, Mandrake e il presidente riescono a richiamare tutti gli aerei tranne quello di Kong, il quale sgancia l’Atomica in Russia (lo stesso Kong si lancia con l’ordigno, cavalcandolo, letteralmente, in una scena entrata nella Storia) innescando l’Olocausto Nucleare. Alla fine, ad Apocalisse scoppiata, è il dottor Stranamore, un ex-scienziato nazista passato al nemico, a suggerire al presidente e allo Stato Maggiore di traferirsi sotto terra per almeno un secolo con poche altre migliaia di persone. E così una storia che era iniziata a causa dell’impotenza sessuale di un uomo, finisce con i protagonisti felici del fatto che nei rifugi le donne dovranno essere almeno dieci per uno per ripopolare la Terra in tempi utili, con conseguente abolizione della monogamia, e con Stranamore talmente eccitato dalla prospettiva di dirigere la “ricostruzione” del mondo, da alzarsi dalla sedia a rotelle proclamando il miracolo in nome del Führer. Insomma: per i capricci dell’eros l’umanità è…fottuta!
Ne Il dottor Stranamore Kubrick mette alla berlina i militari, dipinti quasi tutti come dei guerrafondai cinici che sacrificherebbero senza problemi “qualche milione di vite” pur di vincere un’ipotetica guerra con i sovietici, e i politici, oramai incapaci di controllare i danni causati da leggi e persone che loro stessi hanno messo al comando degli eserciti. La paura ha reso i potenti irresponsabili e pericolosi per se stessi e per coloro che governano. Ma il tempo è galantuomo e sicuramente fra qualche anno verranno persone competenti e in grado di imparare dagli errori dei predecessori. Sicuramente…
PARTE SECONDA: NON SI SA COME, MA CE L’ABBIAMO FATTA
E’ il 1996, sono passati trentadue anni da Il dottor Stranamore e Kubrick ha cominciato a girare Eyes Wide Shut, che sarà il suo ultimo film, le pecora Dolly è il primo essere vivente al mondo a venire clonato e in Italia va in onda la prima puntata di Un posto al sole. Nell’ambito geopolitico, Bill Clinton si avvia ad essere riconfermato presidente degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica che tanto aveva fatto tremare il mondo si è dissolta e il conflitto nei Balcani è appena entrato nella fase più sanguinosa dei bombardamenti. Nonostante questo, però, il mondo vive un periodo di relativa quiete dopo la caduta della Cortina di Ferro e l’Unione Europea si allarga sempre di più, cominciando a parlare di moneta unica e di libero mercato.
Appare quindi strano pensare all’apocalisse in questa fase della storia in cui tutto sembra andare per il verso giusto e, infatti, il secondo film qui analizzato non ricevette alla sua uscita critiche particolarmente positive, salvo poi essere rivalutato qualche anno dopo. Il film in questione è Mars attacks!, diretto da un Tim Burton al massimo della fama (vorrei ben vedere: i suoi ultimi quattro film da regista erano stati Beetlejuice, Batman, Edward mani di forbice e Batman – Il ritorno e, fra una cosa e quell’altra, aveva anche prodotto The Nightmare Before Christmas), che per la pellicola si ispira a due protagonisti della sua infanzia: i B-Movies di fantascienza anni ‘50, come La cosa da un altro mondo e Plan 9 from Outer Space, e le figurine della gomma da masticare Topps, su cui sono modellati i marziani di questo film. Marziani che, di punto in bianco, decidono di invadere la Terra, vaporizzando qualsiasi cosa gli capiti a tiro.
Di fronte alla presenza extraterrestre si intrecciano varie storie: alla Casa Bianca il presidente Jim Dale è diviso tra gli scienziati Kessler e Zegler, favorevoli ad un approccio amichevole, e il bellicoso generale Decker, sostenitore dell’intervento militare e, se necessario, nucleare contro gli invasori; i giornalisti Jason e Nathalie tentano di documentare l’invasione, ma il primo viene ucciso e la seconda rapita ed usata come cavia; a Las vegas, il gangster Art Land pensa di costruire degli alberghi di lusso da vendere agli alieni, mentre sua moglie Barbara, fresca di disintossicazione e di conversione al buddhismo, vede l’invasione come una sorta di “pulizia” del mondo e come un “dono dal cielo”; il giovane e timido Richie cerca di fuggire con sua nonna e Byron Williams, ex-peso massimo e oggi bodyguard nel locale di Art Land, decide di lasciare Las Vegas per raggiungere la moglie e i figli a Washington. Alla fine sarà Richie a scoprire – peraltro in modo totalmente casuale – che la musica country amata dalla nonna è l’unica arma per sconfiggere gli alieni, in quanto ad essi, ascoltandola, esplode (letteralmente) la testa. Sconfitti i marziani, Byron si ricongiunge con la sua famiglia e Richie viene premiato per il suo contributo alla vittoria da Taffy, figlia del presidente, che ha assunto il comando dopo la morte del padre, e tutti, pieni di speranza e di orgoglio, iniziano a ricostruire una Washington distrutta.
L’ultima scena, infine, vede Barbara e Tom Jones (ipse!), sopravvissuti all’invasione, atterrare con un aereo in una radura paradisiaca popolata da animali. Rivisto oggi, Mars attacks!, oltre che una parodia dei film di fantascienza, si rivela un’efficacissima satira sulle autorità e sul potere (politico, militare, legale, mediatico, economico) che non solo non sono capaci di gestire le situazioni di crisi, ma il loro unico scopo è ottenere il massimo risultato per loro stessi. Burton punisce la loro inettitudine facendoli morire tutti per mano degli alieni e premia gli outsiders, gli ultimi, quel gruppo eterogeneo che va da un ragazzo timido e maltrattato anche dai suoi genitori (Richie) ad un’anziana malata di demenza senile (sua nonna), da un’adolescente incompresa ed inascoltata (Taffy) ad una donna in cerca di riscatto dopo una vita sbagliata (Barbara) ad un’umile famiglia dei bassifondi (Byron e sua moglie): a loro viene affidato il compito di costruire un mondo nuovo e migliore del precedente. Del resto fra quattro anni inizierà un nuovo millennio e tutto andrà meglio. Gli umani troveranno finalmente il modo di vivere in pace, ognuno avrà quello che gli serve e ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno. Il 2000, insomma, porterà l’uomo nella sua epoca migliore e più rosea. Ma che accadrebbe se così non fosse?
PARTE TERZA: CI ESTINGUEREMO (E CE LO SAREMO MERITATO)
Questo nuovo millennio non aveva nemmeno fatto in tempo a cominciare che già nel 2001 si erano verificati l’attacco alle Torri Gemelle, il più grave attentato terroristico della Storia, e i tragici fatti di Genova durante il G8 di quell’anno, definiti dall’ONU come “la più grave violazione dei diritti umani dopo la seconda guerra mondiale”. Ad essi seguirono una sanguinosa (ed inutile) guerra in Iraq, uno tsunami in Thailandia, l’avanzata dello stato islamico, una crisi economica planetaria, la nascita e il trionfo elettorale del MoVimento 5 Stelle, una pandemia globale e, storia di questi giorni, un tragico ed instabile conflitto in Ucraina. E nel panorama cinematografico attuale c’è solo un regista in grado di rappresentare in un film questa situazione: Adam McKay, autore nel 2021 di Don’t Look Up.
Perché McKay è la scelta migliore? Per il semplice fatto di aver realizzato La grande scommessa e Vice, due ciniche e spietate rappresentazioni rispettivamente della crisi economica del 2008 e della sopracitata guerra in Iraq, ma se queste due opere parlavano di eventi realmente accaduti, Don’t Look Up è un soggetto di fantasia con parecchi rimandi assolutamente voluti alla nostra contemporaneità, un vaso di Pandora del Terzo Millennio. La storia è presto detta: due astrofisici scoprono l’esistenza di una cometa che in pochi mesi si schianterà sulla Terra, distruggendola; decidono, quindi, di rivolgersi prima alla presidentessa degli Stati Uniti Janie Orlean e poi ai media, ma ottengono solo di essere umiliati e derisi.
Ed anche quando il pericolo diventerà palese ed inevitabile nessuno si muoverà davvero per salvare l’umanità e la cometa cadrà sulla Terra distruggendo tutto e tutti. Perché in Don’t Look Up non ci sono i rifugi nelle miniere de Il dottor Stranamore o la speranza che chiude Mars attacks!, no: il mondo finisce davvero e stavolta non è colpa solo, come ripetuto fino alla noia in questo articolo, dei politici incapaci (di tutti i partiti; la Janie Orlean interpretata da Meryl Streep, infatti, ricorda parimenti sia Donald Trump che Hillary Clinton) o degli imprenditori troppo avidi (si veda nel film il personaggio di Peter Isherwell, magnate della tecnologia imperturbabile, cinico e privo di emozioni fino alla sociopatia, contrario alla distruzione della cometa in quanto essa sarebbe ricca di metalli preziosi, , un misto tra i vari Elon Musk, Bill Gates, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg), ma anche nostra, delle gente comune, di me che scrivo e di voi che leggete. Infatti, se nel 1964 non toccavamo sostanzialmente palla nella crisi che porta all’olocausto nucleare e nel 1996 eravamo noi a risolvere la situazione e a ricominciare meglio di prima, nel 2021 di fronte ad un pericolo reale e concreto (nel film una cometa, nella realtà il cambiamento climatico una pandemia o una guerra praticamente dietro casa) non riusciamo ad essere solidali con i nostri simili, polarizziamo il dibattito intellettuale come fosse del tifo da stadio, arriviamo persino a negare che tale pericolo esista e, alla fine, perdiamo interesse per quanto sta accadendo (anche se la situazione non è risolta) e ci concentriamo su qualcos’altro, in attesa della prossima moda. O del famoso asteroide, vedete un po’ voi.
Don’t Look Up, in definitiva, vuole essere un monito all’umanità: conoscete il problema e avete i mezzi per risolverlo, non perdetevi nell’egoismo o nella vanità, sappiate riconoscere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e sopravviverete; se non sarà così, beh…immagino vi siate fatti un’idea, a questo punto.
EPILOGO
L’arte, per sua definizione e raison d’être, deve suscitare emozioni nello spettatore e spingerlo a farsi delle domande, a comprendere più punti di vista. L’analizzare in questa sede di tre rappresentazioni di un’ipotetica fine del mondo non voleva essere un memento mori, bensì una semplice analisi di tre punti di vista in altrettante epoche differenti volta più che altro ad intrattenere chi legge. Non nego di aver seriamente paura di vivere abbastanza da vedere il giorno del giudizio, ma la paura, si sa, è una risposta irrazionale ad un problema reale ed ecco che poi in me subentra una razionale fiducia nella nostra specie o quantomeno in un colpo di fortuna che ci permetta di sfangarla.
In ogni caso, c’è una cosa sicuramente giusta da fare: concentrarsi sulle cose belle della nostra vita, sulle nostre passioni, sulle persone che amiamo. Così, apocalisse o meno, avremo dei bei ricordi, perché tutto passa, ma i momenti felici restano sempre e perché la vita va vissuta sempre – e qui chiudo come ho iniziato: citando Ligabue – “fin quando ce n’è”.
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