
A volte si incontrano film che raccontano storie vere in modo talmente accurato e freddo da risultare quasi eccessivi nel loro stile documentaristico; davvero il regista non aveva altro da comunicare se non l’attenta esegesi della vita di qualcuno o di un importante evento storico?
Altre volte, invece, capita di imbattersi in pellicole che dovrebbero essere tratte da storie vere ma che risultano davvero troppo romanzate e in cui la forza della verità, che dovrebbe colpire in modo ancora più impattante lo spettatore rispetto ad un racconto di mera fantasia, lascia il posto al dubbio sulla veridicità di quanto messo in scena.
Ma, di tanto in tanto, con un po’ di fortuna, si riescono a trovare quei film che eccellono nella titanica impresa di mettere insieme gli aspetti virtuosi delle due categorie sopra menzionate: quelli che sì partono da una storia vera (e che quindi colpiscono lo spettatore che si domanda come sia possibile che sulla stessa Terra che lui calpesta accadano gli eventi straordinari che la pellicola descrive) ma utilizzandola come punto di partenza per un messaggio più universale che il regista vuole far arrivare al pubblico in sala. In questo caso, allora, non è sbagliato ricorrere ad una buona – ma mai eccessiva – dose di fantasia al fine di raggiungere la verosimiglianza del racconto: ovvero quel magico intreccio tra realtà e finzione di Manzoniana memoria che risulta essere il modo migliore per comunicare grandi concetti anche allo spettatore meno attento.
Ebbene, quest’ultimo virtuoso caso è quello di A Taxi Driver, pellicola sudcoreana del 2017 del regista Jang Hoon. La storia è quella Kim, umile tassista di Seul, che, per ragioni economiche, si trova a dover accompagnare a Gwangju Jürgen Hinzpeter, un giornalista tedesco interessato a riprendere i violenti scontri tra gli studenti universitari e la polizia, braccio armato della dittatura di Chun Doo-hwan). Così facendo, Kim si ritroverà invischiato (il cliente si spaccia come semplice uomo d’affari, solo in seguito l’autista scoprirà la sua vera professione) in quelli che passeranno alla storia come i giorni del massacro di Gwangju nel maggio 1980, quando il regime represse violentemente una rivolta popolare, causando alcune centinaia di morti.

Il tassista Kim e il giornalista Jürgen sono i due personaggi cardine del film perché incarnano due visioni diametralmente opposte della vita: il primo è una persona ormai disillusa, disinteressata della politica e di tutto ciò che non contribuisca a fargli guadagnare qualche soldo in più per tirare avanti nella sua faticosa esistenza (ha da poco perso la moglie di cancro e ha una figlia da mantenere); il secondo, al contrario, è un giornalista che non riesce a vivere lontano dal pericolo, che sprezza la noia della vita tranquilla e che ha votato la sua esistenza alla grande causa del giornalismo, arrivando a fare proprie battaglie di popoli lontani chilometri e chilometri da casa sua.
Certo i due incontreranno anche altri personaggi a Gwang Ju, di diversa età ed estrazione sociale, tutti simbolo di una rivoluzione democratica che di lì a poco non avrebbe tardato ad arrivare. Ma il rapporto più interessante è quello che si sviluppa tra questi due personaggi: in principio, due freddi estranei legati da un semplice contratto di trasporto, alla fine due amici fraterni legati da un’amicizia dolceamara.


Senza dubbio, il vero protagonista della storia è Kim con la sua commovente parabola di “redenzione”. Egli, infatti, con il suo taxi, porterà il giornalista dentro e fuori una zona militarizzata in cui i soldati sono pronti a fare fuoco su studenti e cittadini inermi senza alcuno scrupolo; ma non lo farà, in un primo momento, per una questione ideologica, bensì per il solo bisogno economico (la cifra che gli ha offerto il giornalista è astronomica rispetto alle abituali tariffe delle corse a Seoul). Come detto, l’autista coreano è assolutamente disinteressato a ciò che sta accadendo nel paese; anzi, in un primo momento è lui stesso a chiamare “fannulloni scansafatiche” gli studenti in protesta, credendo invece alla propaganda di regime portata avanti dai giornali e dalle televisioni.
La duplice specificazione “in un primo momento” è necessaria perché, attraverso il viaggio (di “apocalypsenowiana” memoria), verso la follia e l’inferno di Gwangju sarà lo stesso Kim a ricredersi e a redimersi. Egli si renderà conto della violenza e delle menzogne tipiche di tutte le dittature, e lo farà nel modo più brutale possibile: assistendo con i propri occhi ai massacri della polizia in piazza e agli ospedali pieni di cadaveri e moribondi (la stima delle vittime del massacro di Gwangju si aggira tra le diverse centinaia e alcune migliaia di morti).
Lo stesso regista, a suggellare la compiutezza di questa parabola redentiva, insiste molto sul rapporto del protagonista con la propaganda di regime: se in un primo momento il suo asservimento alle notizie del giornale è totale e mai messo in discussione, al contrario, sul finale della pellicola, quando si siederà per un veloce pranzo in una taverna fuori Gwangju, il suo sguardo nei confronti del telegiornale e delle persone che vi credono ciecamente sarà di totale disprezzo.
E qui arriviamo al motivo per cui questo film riesce nell’impresa di usare una storia vera per mandare un messaggio universale: A Taxi Driver mette in scena uno dei principi cardini delle Rivoluzioni democratiche. È vero, la Rivoluzione parte dagli uomini, ma, più che di quelli ideologicamente già convinti, abbisogna di quelli disinteressati. Quelli che si rendono conto del male in cui sono immersi solo quando viene sbattuto loro in faccia, perché altrimenti continuerebbero a vivere la loro vita senza badare a quello che accade loro intorno, ignorando i preoccupanti segnali provenienti dalle strade o dai media indipendenti (magari additando questi ultimi come servi della propaganda). La Rivoluzione è vera quando riesce a convincere non gli studenti culturalmente già formati nelle università, ma quando tocca le persone umili e disilluse, coloro che la dittatura aveva assopito con false promesse o che semplicemente avevano voltato la testa poiché troppo difficile e pericoloso guardare in faccia la realtà e porsi delle domande. In tutto questo, la metamorfosi del volto di Song Kang-ho, l’attore che interpreta il tassista protagonista (conosciuto al grande pubblico per la sua splendida interpretazione in Parasite, in cui interpreta il padre della famiglia povera), è semplicemente perfetta: paura, rabbia, disperazione, determinazione, smarrimento, ostinazione, rimpianto, rammarico, soddisfazione sono tutte emozioni perfettamente percepibili dalle diverse sfumature del viso di questo fenomenale attore.


L’apice della “redenzione” di Kim, si ha in un punto preciso, assolutamente commovente, doppiamente interessante perché ponte per il secondo grande tema del film, ovvero il suddetto intreccio tra realtà e fantasia. Ad un certo punto Kim si trova nella condizione di poter guidare verso Seul e tornare alla sua tranquilla vita in compagnia della sua bambina, lasciandosi alle spalle le tragedie e il pericolo di Gwangju. Tuttavia, egli guarda le scarpette che ha appena comprato alla figlia e, in preda al dubbio e allo sconforto (“Che cosa devo fare? Non lo so!”), decide di tornare indietro. Ebbene, in questo toccante momento di crescita interiore, non è sbagliato immaginarsi che nella mente del protagonista sia balenata una frase come “A cosa servono delle belle scarpe, se non c’è un Paese dove poter camminare?”.
Qui abbiamo la catarsi dell’umile uomo convertitosi ad una causa, che finalmente ha qualcosa in cui credere: abbiamo un egoista che per la prima volta apre davvero il proprio cuore agli altri e decide di mettere a repentaglio la propria vita in nome di un ideale (egli infatti tornerà a Gwangju per permettere al giornalista di uscire dalla zona di guerra e diffondere le immagini del massacro ai media di tutto il mondo).
È forse troppo immaginarsi un’intera frase pronunciata dal protagonista? Siamo forse degli sceneggiatori con la facoltà di aggiungere battute ai personaggi? In realtà, questa operazione non è del tutto errata poiché questa scena potrebbe non essere mai accaduta. Tutta questa storia, infatti, è vera solo dalla prospettiva di Jürgen, del giornalista. Egli ha davvero vissuto questa esperienza, e ha davvero incontrato un tassista di nome Kim che lo ha portato e riportato da Seoul a Gwangju; ma, sfortunatamente, al momento di scambiarsi i numeri di telefono per rimanere in contatto, Kim ha deciso di dare un numero falso e di rimanere irreperibile. Dunque, tutta la storia dalla prospettiva dell’autista sudcoreano è inventata, fittizia. Anzi: nelle scene finali c’è una toccante intervista al giornalista tedesco che auspica da anni di reincontrare il tassista, cosa che non riuscirà mai a fare.

Ed è qui allora che arriviamo finalmente a parlare del magico intreccio tra realtà e finzione creato da Jang Hoon: egli modella un personaggio meravigliosamente contraddittorio e profondo, pur nella sua assoluta semplicità. Un personaggio di cui tutti bene o male hanno fatto esperienza nella loro quotidianità (a chi non è capitato di incontrare un tassista un po’ scorbutico e profondamente critico delle istituzioni?), che diventa, però, l’indiscusso protagonista (addirittura l’eroe!) della storia. Perché, come detto in apertura, il grande merito di questa pellicola è proprio il saper parlare in termini universali: A Taxi Driver si rivolge alle generazioni future, indicando loro la via da percorrere nella lotta per i diritti e la democrazia, ma anche a quelle passate, le generazioni di Kim, sperando di risvegliare in loro qualcosa che forse negli anni si era assopito.
Per capire la forza del rapporto tra realtà e finzione in questo film dobbiamo analizzare una scena, e per farlo dobbiamo prima considerare un elemento fondamentale: il problema della lingua. Il giornalista tedesco non capisce una parola di coreano, e la Corea del Sud è un paese ancora piuttosto chiuso all’occidente negli anni ’80: il risultato è che a parlare inglese sono davvero poche persone, facendo emergere un enorme problema di incomunicabilità. Kim, per esempio, parla poco l’inglese, conosce giusto le principali parole; eppure, è tra i pochissimi che riesce a comunicare con Jürgen, poiché la maggior parte delle persone che il giornalista incontrerà non conosceranno affatto l’inglese.
Ebbene, a fronte di quanto detto, ecco la scena: durante la notte che segue un evento traumatico di cui i protagonisti hanno fatto esperienza, Kim, sconvolto e in lacrime, si sfoga urlando contro il giornalista, spiegandogli perché ha intenzione di tornare a casa da sua figlia, sostenendo che quella non è la sua battaglia. Jürgen, poiché il suo interlocutore sta parlando in coreano, non capisce una parola; eppure, il giornalista non solo ha compreso perfettamente il senso del discorso del suo autista, ma ha anche profondamente empatizzato con lui, tanto che il giorno dopo gli farà recapitare i soldi promessi come compenso e un messaggio di buon ritorno a casa.
E allora, ammesso che tutto ciò sia realmente successo, dobbiamo scindere tra realtà e finzione: la realtà è che Jürgen ha sentito urlare e inveire Kim; nulla più, perché non ha idea di cosa possa avergli detto. La finzione è invece quel bellissimo e commovente discorso messo in scena dal regista, in cui Kim mostra tutta la sua umanità e la sua fragilità, la sua paura di fronte a ciò che stanno affrontando e la sua angoscia per la figlia a casa. Mostra, allora, quella che è la debolezza dell’essere umano in queste situazioni di estremo stress e pericolo: mostra le sue contraddizioni che sono in realtà quelle di una qualsiasi persona che si trova catapultata in un contesto del genere. Siamo quindi davanti a una caratterizzazione, inventata, di un personaggio che serve, di nuovo, a universalizzare il messaggio del regista. Siamo davanti a un racconto verosimile, che affonda le radici nei reali racconti del giornalista tedesco, sui cui poi costruisce personaggi fittizi funzionali a veicolare quanto pensato dal regista.

A Taxi Driver è, per i motivi detti, una pellicola politica ostinata e coraggiosa, eppure profondamente toccante, come testimoniano le ultime immagini del vero Jürgen Hinzpeter, che spera con questo film di raggiungere il suo vecchio amico coreano. Non ci riuscirà, come già detto; ma il figlio del vero Kim, dopo l’uscita di questa pellicola, riuscirà a mettersi in contatto con la produzione cinematografica e i media sudcoreani. Il vero Kim è, purtroppo, morto a metà degli anni ’80; sembra che lo shock vissuto in quei giorni a Gwangju abbia acuito un già latente problema di alcolismo che lo ha condotto alla morte.
Tuttavia, su richiesta dello stesso figlio, il corpo del padre è stato seppellito accanto a quello del reporter tedesco (deceduto anche lui prima che potesse conoscere l’infausto destino del suo amico). In qualche modo, se vogliamo, realtà e finzione si sono di nuovo uniti: il cinema ha superato sé stesso, permettendo infine il riabbraccio di due vecchi compagni di avventura, seppur non in questo mondo.
Come accennato in apertura, questa è la storia di un’amicizia dolceamara. Ma è anche una storia ricca di valori, di principi, di emozioni. Di persone. Perché il miglior modo di raccontare la Storia, si sa, è quello che passa per le singole storie.
