Recensione di Matteo Scantamburlo
TEMPO DI LETTURA 5′
Il valore della prima impressione, soprattutto all’interno di una società frettolosa e impaziente come quella attuale,
è indubbiamente una discriminante importante del nostro modo di vedere e percepire la realtà circostante. Il mondo corre inesorabilmente e la prima impressione in molti casi può essere anche l’ultima che si ha, in caso non sia positiva, poiché spesso di dare seconde chance non c’è né il tempo né la voglia, vuoi perché accecati dall’irrefrenabile desiderio di novità e stupore, oppure in quanto semplicemente non convinti che la rivisitazione in questione possa essere utile o portare ad una rivalutazione, tanto era stata negativa la prima sensazione.
Questo discorso estremamente generico può essere applicato nel particolare a vari elementi della vita di tutti i giorni,
dalle persone ai luoghi, fino ad arrivare alla musica, arte che risente forse più di tutte le altre della prima impressione, tanto nelle sue manifestazioni più commerciali, che devono obbligatoriamente conquistare l’ascoltatore medio con una hit orecchiabile e riconoscibile, quanto in forme più sperimentali, chiamate all’ancor più difficile compito di attirare l’attenzione di appassionati veri e propri, spesso insaziabili nella loro esplorazione consumistica dello sconfinato mondo in cui sono immersi.
Di prime impressioni musicali, in particolare quando si tratta di album interi, se ne possono annoverare tantissime,
quella tanto negativa da non far mai più tornare l’ascoltatore sul prodotto, quella non convintissima ma dalla quale si sono intraviste comunque delle potenzialità, quella che lascia l’impressione di non aver compreso attentamente un certo tipo di proposta, quella positiva e soddisfatta e infine quella folgorante, stravolgente, che fa mettere in discussione tutto ciò che si è ascoltato fino ad allora lasciando un senso di “come ho fatto a vivere senza averlo mai sentito finora?”. Vespertine nel mio caso rientrò nell’ultima categoria.
Non mi è difficile riportare alla memoria il momento in cui ebbe luogo questo primo, segnante, ascolto;
erano i primi giorni di novembre dell’anno scorso, nel mondo esterno era ormai arrivato il freddo, mentre quello interno, non solo del sottoscritto ma della maggior parte della popolazione mondiale, era dominato dall’incertezza causata da un virus ancora a piede libero, che costringeva il paese ad una semaforica alternanza di zone di diverso colore.
Si aggiunga a tutto ciò il tedio tipico dell’undicesimo mese dell’anno e sarà possibile costruire un quadretto della situazione dalle tinte piuttosto autunnali.
Nei giorni precedenti al suddetto periodo la mia attenzione musicale era stata catturata con decisione da questa particolare cantante islandese, nota ai più come Björk, e dal suo secondo disco, Post, che con le sue sperimentazioni elettroniche unite ad una squisita vena pop stava contribuendo non poco all’allargamento dei miei orizzonti musicali. Mi volgevo quindi con entusiasmo e curiosità all’ascolto di un altro lavoro dell’artista e tra i vari album della sua discografia, che in seguito scoprì essere di una consistenza e qualità invidiabile, la mia scelta ricadde sul quarto disco, Vespertine.
Le mie aspettative, alimentate dall’amore che già coltivavo per Post e dalle recensioni estremamente positive lette in rete, erano piuttosto alte,
ma dopo le prime note di Hidden Place, opener dell’album, cessarono di esistere, venendo come buttate fuori dai miei pensieri, occupati solo nell’immersione musicale. Vespertine riesce infatti come pochi altri dischi a catturare l’ascoltatore in un’atmosfera sua, nella quale sensazioni di candore niveo e rigore gelido si intrecciano dando vita ad un immaginario artico, sicuramente coerente con in natali islandesi della cantautrice, in cui però non manca mai il calore, tali sono la passione e la carica emotiva che impregnano i brani. In un mondo del genere il benvenuto non può che essere dato da Hidden Place, pezzo retto da un beat elettronico cupo, minimalista, perfetto accompagnatore della performance vocale di Björk, che si esibisce in un cantato quasi sussurrato e che non esplode mai, ma risulta straordinario nel dare colore e tonalità alla melodia.
A questa componente musicale così contenuta e delicata si unisce il testo,
nel quale la cantante descrive come due persone possano scappare da tutto ciò che li circonda e trovare rifugio in loro stessi tramite il loro legame e la loro intimità, quest’ultima tema fondamentale di tutto il disco e ripreso già nella canzone seguente Cocoon. Se Hidden Place mi aveva stupito per la sua ricercatezza e sperimentazione, Cocoon mi commosse per la sua fragilità; qui la compostezza che caratterizza il brano di apertura viene meno, a partire dalla voce di Björk, che con un falsetto tremante, che sembra sempre sul punto di spezzarsi, racconta la corrispondenza con il suo amato dal punto di vista tanto emotivo quanto fisico, fornendo un’interpretazione incantevole nella sua purezza ma al tempo stesso coerente con la marcata sensualità del testo.
Sonorità più accessibili emergono nel pezzo seguente, It’s Not Up to You,
dove l’artista riesce ad integrare i cori angelici e i micro-beat delle tracce precedenti (e successive) con degli elementi pop senza intaccare minimamente l’aura di purezza dell’album, che assume la sua dimensione più elevata nella quarta canzone, Undo. Mettere per iscritto in maniera soddisfacente le emozioni provate durante l’ascolto di questa canzone sarebbe impossibile, servirebbe il “trasumanar” dantesco, l’unica cosa che poteva avvicinarsi ad esprimerle erano le lacrime che cadevano incessanti con lo scorrere del brano; Undo è l’incanto puro, non c’è niente al suo interno che non segua l’armonia e la purezza, che siano il cantato etereo di Björk, la produzione cristallina o quei cori celestiali che rendono il finale così paradisiaco, il tutto al servizio di un’esortazione all’amore vissuto nella sua forma più onesta, senza che sia uno sforzo eccessivo o forzato.
All’amor sacro segue dunque l’amor profano con Pagan Poetry,
in cui il sentimento viene vissuto non solo nella sua forma sublime e romantica, ma appunto anche in quella “pagana” e passionale, e di passione abbonda anche l’interpretazione della cantante di Reykjavik, che per la prima volta dall’inizio dell’album alterna al timbro pulito anche quello graffiato. Anche questa è una canzone che rapisce, in maniera diversa da Undo, ma comunque non in misura minore, è un crescendo di tensione sempre maggiore che, una volta raggiunto il culmine con un’eruzione vocale di Björk pienamente “alla Björk”, si scioglie improvvisamente nel silenzio, dal quale emerge un inesorabile e appassionata ripetizione di “I love him, I love him” della cantante, che chiudono in maniera spiazzante il brano.
Siamo dunque alla metà dell’album e dopo la strumentale Frosti,
perfetta per lasciare un momento di pausa dopo una sequenza così intensa, seguono Aurora, probabilmente il momento più invernale e candido di tutto l’album e forse anche quello in cui la cantante da’ le maggiori prove del suo range vocale, che raggiunge altezze impressionanti, e An Echo, a Stain, che invece è il brano più cupo e inquietante, l’unico in cui l’armonia e l’integrità dell’amore descritto nel disco sembrano dissolversi in un abisso, come accentuato anche dal “Free falling, complete” che chiude il pezzo. Sun in my Mouth riporta dunque la luce nell’album con il suo maestoso arrangiamento di archi e la sua arpa, dando un altra prova di estrema grazia e delicatezza, accentuate anche dal testo, adattamento di un’evocativo componimento del poeta avanguardista Edward E. Cummings, e dalla solita performance commovente della cantante, mentre in Heirloom vengono per un attimo meno l’orchestra e i carillon e c’è una ripresa delle sonorità elettroniche dei dischi precedenti.
Arrivato a questo punto l’ascolto era già stato sensazionale, lo stupore era al massimo e la commozione anche oltre,
soprattutto considerando quella accumulatasi con il letale uno-due Undo/Pagan Poetry, ma andava oltre le mie previsioni che qualcosa di simile potesse ripresentarsi. E invece alla traccia 11 arriva Harm of Will, che prima mi scioglie con un’intro dalla bellezza inenarrabile e poi mi stende con un interpretazione vocale struggente all’inverosimile, il tutto sormontato dai soliti archi, più solenni e imponenti che mai, mentre a quella numero 12, nonché l’ultima, c’è Unison.
Definire questa canzone il closer perfetto non è un’esagerazione,
in quanto è il brano in cui tutto il percorso dell’album trova il suo compimento, sia a livello di testo, un vero e proprio trionfo dell’amore vissuto con piena complicità fisica ed emotiva, appunto “all’unisono”, sia nella componente musicale, un festival di arpe, cori e archi che si sublimano nel turbinio finale che conclude l’album, andando a legittimare quello che, per me, è stato senza dubbio il miglior primo ascolto di sempre.
Puoi trovare gli articoli precedenti in fondo alla pagina Home.
Seguici sui social! Instagram, Facebook
Resta aggiornato su tutte le nostre pubblicazioni! Iscriviti alla newsletter!
Puoi trovare gli articoli precedenti in fondo alla pagina Home.
Seguici sui social! Instagram, Facebook
Resta aggiornato su tutte le nostre pubblicazioni! Iscriviti alla newsletter!
Lascia un commento