Articolo di Enrico Liverani
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Cinquant’anni or sono veniva realizzato quello che è universalmente considerato il film dell’orrore per antonomasia. Studiato, analizzato, censurato, fonte di numerosi sequel, prequel e spin-off e di un’altrettanto numerosa serie di parodie (da Scary Movie 2 a una puntata di Leone il cane fifone, da Riposseduta con Leslie Nielsen a L’esorciccio con Ciccio Ingrassia), parliamo ovviamente de L’esorcista, diretto da William Friedkin nel 1973.
La trama è nota: la dodicenne Regan MacNeil viene posseduta dal demone Pazuzu e la madre Chris decide di ricorrere ad un esorcismo per liberarla, affidando l’incarico al giovane padre Karras, assistito dal più anziano padre Kindermann. Eppure, sebbene le scene della possessione e dell’esorcismo siano tra le più famose nella Storia del Cinema e siano impresse nella memoria del pubblico, in realtà occupano una parte minoritaria del film. Per spiegarmi meglio: i primi comportamenti paranormali di Regan si manifestano dopo quaranta minuti di film; la scena clou, l’esorcismo della bambina, occupa gli ultimi venticinque minuti, includendo le scene finali; e le singole apparizioni della posseduta nel resto della storia a stento superano i cinque minuti. Il tutto su una durata di due ore e dodici minuti (nella versione integrale). Ma se quella che dovrebbe essere la componente horror, il cardine dell’opera, risulta, cronometro alla mano, così poco presente, come mai in questo suo mezzo secolo di vita L’esorcista ha fatto e fa ancora paura?
Iniziamo col dire che non è stato concepito come un film dell’orrore bensì, per la precisione, come un “film cronaca”. L’autore del romanzo omonimo che fa da base all’opera, William P. Blatty, qui anche sceneggiatore, ha, infatti, scritto il libro basandosi sulla storia vera di un esorcismo su un quattordicenne del Maryland nel 1949, il quale condivideva molti “sintomi” con quelli che colpiscono Regan nel film (aggressività, parlare in lingue a lui ignote, alterazione di personalità). Ed è in questa ricerca di realismo che si vede l’intenzione di Blatty: rappresentare il Male per eccellenza, il Demonio, portato in una realtà estremamente simile a quella dello spettatore.
Ecco perché, quindi, i momenti della posseduta risultano diradati nel complesso del film, ma allo stesso tempo sono la parte più ricordata della pellicola; esse rappresentano un evento improbabile, eppure possibile. La storia sembra, insomma, suggerire che esistano delle presenze maligne nel nostro mondo e che sia impossibile ignorarne la presenza. A tal proposito è interessante notare come nel film siano i medici a consigliare la pratica dell’esorcismo alla madre (atea) di Regan, come se nemmeno la scienza e le sue istanze razionali non possano che ammettere la possibilità che un essere umano entri in contatto con un demone.
Anche la scelta del regista è figlia di questa ricerca di realismo: William Friedkin, infatti, non solo era al massimo della sua fama dopo aver vinto l’Oscar per la regia de Il braccio violento della legge, ma aveva anche lavorato moltissimo come documentarista – e questo era ciò che davvero interessava a Blatty. Nella prima metà del film, Friedkin, di concerto con l’autore-sceneggiatore, mette in scena il realismo voluto da Blatty con inquadrature assai semplici, salvo poi scatenarsi nella seconda parte tra riprese oblique e sequenze interrotte all’apice della tensione, creando un’atmosfera quasi alienante. Atmosfera cui contribuiscono da un lato il mitico tema musicale, scovato dal regista nel primo album del compositore progressive Mike Oldfield (autore anche della hit Moonlight Shadow) e inserito in momenti in cui sembra non c’entrare nulla come preludio di qualcosa di terribile, dall’altro le interpretazioni del cast, in particolare quelle di Linda Blair ed Ellen Burstyn nei panni, rispettivamente, di Regan e sua madre. Nonostante ottennero entrambe la nomination all’Oscar, le due donne furono messe a dura prova da Friedkin, il quale legò veramente al letto la prima (e ricordiamo che all’epoca la Blair aveva solo dodici anni) e scaraventò veramente la seconda contro un muro procurandole dei danni permanenti alla schiena. La cosa “divertente” è che Friedkin non diede lo stop alle riprese in quel momento e la Burstyn dovette urlargli “’Turn the effin’ camera off!’!”. Ovviamente fu buona la prima: più realistico di così…
Detto ciò, qualcuno potrebbe giustamente obiettare che, per quanto le immagini della bambina col demone in corpo siano scioccanti e impossibili da dimenticare, tutto il resto del film (come detto, la maggior parte) non sia affatto imperdibile o, il che è peggio, non sia spaventosa. Per confutare questa critica bisogna soffermarsi sui vari personaggi e sulle loro storie; nessuno di essi, infatti, può dire di avere una vita felice: la signora MacNeil ha divorziato da poco e ha un cattivo rapporto con l’ex-marito; padre Karras, oltre ad una crisi di vocazione, è costretto a vedere l’anziana madre morire in uno squallido ospedale psichiatrico; infine padre Kindermann, al quale una visione ha preannunciato lo scontro col demone, è ormai troppo vecchio e stanco per portare a termine la sua missione e, infatti, senza svelare troppo, non riuscirà a compierla. L’unico personaggio positivo è la piccola Regan, una bambina felice e spensierata, amata da sua madre e gioiosa nei suoi dodici anni. Eppure è proprio lei ad essere posseduta dal demone e a subire le sue torture, perdendo l’esemplarità di ciò che rappresenta: un simbolo di innocenza e di vita.
Si può vedere in tutto ciò una vena morale profondamente cattolica, come se la possessione fosse una punizione per dei “peccatori” (la donna atea e divorziata, il prete che dubita della sua fede e quello che non riesce ad adempiere al compito che Dio gli ha affidato); teoria senza dubbio suggestiva, ma che io non sposo in toto, preferendo una visione più compassionevole: i personaggi vivono drammi plausibili, normali, come tantissimi dei loro simili, perché il mondo in cui vivono non è perfetto, perché all’Eden Adamo ed Eva hanno già rinunciato. Per questo è impossibile rimanere indifferenti alla loro sofferenza, alla loro fallibilità, rese ancora più gravi dall’avvento di Pazuzu. Ecco, perciò, il senso della frase che appare a padre Kindermann nella sua visione all’inizio del film: il male contro il Male, la triste realtà dell’uomo ulteriormente turbata dalla presenza soprannaturale.
Ritengo opportuno, infine, citare la scena dell’ospedale, in cui a Regan viene fatta una radiografia alla testa per capire se i suoi comportamenti anomali siano frutto di una malattia mentale; tale scena, girata in una vera sala operatoria, risulta disturbante per la sua crudezza, seppur priva di elementi estranei o inquietanti, mostrando solo una bambina impaurita e immobilizzata sul letto cui viene inserito il liquido a contrasto per la TAC, procedure normalissime che, però, restituiscono una sensazione di disagio nello spettatore. A corredo di questo, fa impressione notare come il radiologo che esegue l’operazione nel film sia Paul Bateson, un vero medico di New York che tra il 1975 e il 1977 fu sospettato di sette omicidi e condannato a vent’anni di carcere. Un ulteriore segno che la realtà, spesso, è più spaventosa di un film.
In questo suo mezzo secolo di vita, L’esorcista è divenuto un vero e proprio classico del cinema e risulta ancora una visione più che piacevole. A differenza di moltissimi film horror odierni, non ricerca lo spavento, il jumpscare a tutti i costi, ma predilige un terrore instillato subdolamente in situazioni ordinarie. Situazioni queste che suscitano un tipo diverso di orrore, dato dall’immedesimazione dello spettatore nei personaggi, dalla compassione che si è spinti a provare per loro. E se qualcuno rimane indifferente di fronte a tutto ciò forse (e sottolineo forse) c’è qualcos’altro di cui avere paura.
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