isterie urbane

Racconti di Viola Bertoletti

Fuori dai binari

L’operatore GQG, addetto alla manutenzione-rotabili, sapeva bene che il solo modo in cui XPT e SRT si sarebbero potuti incontrare era scontrandosi.
Nella città di F4892 la rete ferroviaria era infatti delle più organizzate, lunghi fili metallici solcavano le strade e attraversavano le piazze come tante rette tirate col righello, quasi quel mondo caotico avesse bisogno di essere incanalato su binari, come un sorriso sgangherato ha bisogno dell’apparecchio per allineare i denti storti.
Ogni mattina uomini e donne tuffavano i polpacci nei pattini, allacciavano le protezioni sulle gambe e la sera imboccavano di nuovo la certezza della loro pista su rotaia per fare ritorno a casa, seguendo quell’itinerario personalizzato che ognuno si era visto realizzare su sovvenzione statale, al momento dell’assunzione nel proprio posto di lavoro. 
Ma quel giorno GQG, al profilarsi dei grattacieli in lontananza, che la luce del tramonto incendiava definendone i profili, si sentì ispirato,e, postosi nel punto in cui le rotaie di XPT e SRT si correvano accanto più vicine, le fece incrociare.
Da quando gli esseri umani erano diventati più simili a tram elettrici che ai loro antenati, incontrarsi per strada non era più possibile: le traiettorie tendevano schiettamente alla destinazione e il rischio di sfiorarsi in corsa, anche solo con la punta delle dita, era programmato per essere il più vicino possibile allo zero.
Ma XPT e SRT, l’operatore li conosceva entrambi, avendoli visti sfrecciare sui loro tracciati paralleli, e aveva notato la conversazione dei loro occhi: simili alle bandiere issate sulle navi, il silenzioso saluto era stato fatto sventolare anche in lontananza, ma a fondo perduto, da teste ancora rivolte indietro verso il luogo dell’apparizione dell’altro.
Osservando la trascuratezza di questa situazione, la cieca negligenza della gente, come la definiva lui, disabituata all’amore decise di manomettere il corso degli eventi, di intervenire per frenare di colpo la folle corsa sul cemento.
Disegno di Hiro Fujimaki
Ed ecco che il sangue del tramonto si mischiò a quello che SRT stillava dal labbro inferiore, mentre XPT, steso a terra per l’impatto, la guardava con l’aria interrogativa tipica dei primi appuntamenti. Lui si sentì in colpa, perché stavano bloccando il traffico. Così si tolsero i pattini, e si allontanarono a piedi nudi, uno accanto all’altra, stilando un elenco di ipotesi sul mistero inspiegabile, di come era stato possibile e di cosa era stato, che aveva allacciato in una cerniera le loro esistenze di passaggio.

sulla 90

Sedeva sul bus,  parlava tra sé e sé, biascicando, tanto sapeva lui a che cosa si riferiva. Non servivano troppi giri di parole e nella foga un rivolo di bava gli filava giù dalla bocca. Allora frettolosamente cominciò a scavare con la mano in cerca di un pezzo di carta, fino in fondo alla tasca, perché era bucata all’interno e per trovarci davvero qualcosa bisognava rovistare per bene, come la mano fosse una sonda e la giacca un fondale o un retrobottega.  Il fazzoletto che gli serviva, custodiva quel che rimaneva di una sigaretta, che venne subito riavvolta e rimessa al suo posto. Ma subito prese a strofinarsi e massaggiarsi le gambe, c’era proprio qualcosa che non andava, lo sentiva, ma non capiva esattamente cosa. Ma sì erano i piedi, ecco cosa, gli prudevano le punte dei piedi, tutte e due, così provó a farli slittare un po’ in retromarcia, ma a quel punto gli prudevano i talloni, allora li piantò a terra con forza, credendo di averli sistemati, ma in quel modo la schiena era costretta a star curva e per una volta che c’era il sedile con il poggia-schiena, tanto valeva mettersi comodi. Tentò di distrarsi, così spostò lo sguardo contro il finestrino; Milano gli correva incontro con i fanali accesi.  Ma niente da fare, gli alluci premevano così forte che all’improvviso li sentì pulsare, sembrava avessero deciso di sfondare quelle maledette punte, ma la gomma resisteva dura e le fodere non volevano farsi crivellare. Spazientito non gli restò che togliersi le scarpe, ecco fatto, così va meglio, tutta un’altra storia; e gli venne anche una furbizia: tirò via le suolette, una e poi l’altra, ma cacciando di nuovo i piedi dentro le scarpe a cui aveva fatto lo scalpo, le trovò fredde e ruvide. Allora tanto valeva andarsene in giro scalzi, rimpiangendo le sue vecchie scarpacce larghe, che aveva scambiato con queste altre che parevano più resistenti. Poi, come se non bastasse i piedi gli erano diventati più grossi. E si chiese davvero se fosse un problema di piedi, o di scarpe. Li estrasse ancora una volta da quelle gabbiette, e cominciò a piegare a viva forza, in due come un panino, una scarpa di gomma. Le rimise e stese le gambe: adesso voglio proprio vedere, gliel’aveva fatta, e si allungò sul sedile come un sultano sul suo trono, per quei pochi istanti di pace. Ma di nuovo una fitta di solletico gli assalì le dita dei piedi; allora si strofinò le mani in preda al nervosismo e intanto salivano sul bus nuovi passeggeri. Non li guardava nemmeno in faccia, ma fiondava gli occhi sulle loro scarpe, su quel paio di mocassini lunghi che sembravano sci o navi da crociera, o quegli stivali larghi che ci si starebbe comodi in quattro. E intanto non si lasciava in pace le mani, le quali intrecciava e slacciava, che ormai saranno state dieci preghiere, che alla fine almeno loro stavano bene. D’altra parte non si può avere tutto, è sempre metà e metà, o questo o quello, o le mani o i piedi, e scuoteva la testa, ripetendo tra sé, che non si raccapezzava di non entrare nelle scarpe.