Racconto di Viola Bertoletti
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Disporrò dei piccoli Cactus e qualche Aloe tra “I dolori del giovane Werther” e le poesie di Garcia Lorca sulle mensole di legno nella mia casa, a Torino.
Il mio appartamento avrà delle spaziose pareti bianche su cui appenderò i miei poster e le mie fotografie; per esempio quella della nonna da giovane, con quel vestito giallo così retrò, ma che a quella sua figura sinusoidale stava tanto bene (io sono troppo smilza per indossarlo, mi fa sembrare una triste campanula per come mi cade sui fianchi). La nonna in quella foto è bella con una naturalezza che si adatta al paesaggio senza danneggiarlo, spiccando con delicatezza, come un teatro greco tra le colline; è lì, adagiata a una roccia, e sorride seria, saggia come Madre Natura. Sulla parete bianca la nonna giovincella starà benissimo.
Anche il soffitto deve essere bianco.
Nei pomeriggi soleggiati, verso le tre, o giù di lì, io me ne starò distesa sul letto, compiaciuta e pacifica, con gli occhi puntati al soffitto a pensare alla vita, al caso e all’amore. Non che qua dove sono ora non ci sia abbastanza bianco sul soffitto, ma una cosa è avere un soffitto privato, su cui proiettare le proprie meditazioni, gli aneliti e le fantasie, un’altra è averne uno in condivisione. A volte ho l’impressione che il riverbero dei miei pensieri vada inevitabilmente ad infrangersi e a sgretolarsi contro la grande montagna di quelli di mia sorella Sara. Più che una montagna quello di Sara è un vulcano.
Ora, immaginate:
I Pink Floyd suonano le malinconiche e armoniche note di “Breathe” e David Gilmour ha appena intonato il suo lento Breathe, breathe in the air; nel frattempo le mie rondini piroettano nello spazio vuoto, si stagliano nei cieli dell’impossibile, con il petto gonfio di occasioni; sfiorano appena il pianeta Terra con le ali, giusto per lasciar cadere volteggianti, le piumate speranze. Nel loro migrare verso le mistiche regioni del sogno e le illusorie terre dell’aspettativa incontrano però, più o meno a metà del soffitto, il vulcano quiescente di mia sorella.
La placida passività di Sara può trarre in inganno. Quella ragazza si tiene in realtà sempre pronta a perdere il controllo da un momento all’altro, per ragioni oscure e misteriose almeno quanto i buchi neri. Nella maggior parte dei casi l’eruzione ha grande probabilità di avere luogo, poiché nessun pretesto le appare mai troppo stupido da poter evitare di scatenare una catastrofe. Così lapilli di lava, gas tossici e detriti infuocati si abbattono sulle mie rondini e hanno voci stranamente stridule che suonano come: “vuoi abbassare quella musica di merda che non riesco a studiare?!”. La magia di questa pseudo fase rem è così bruscamente interrotta e i pensieri volatili, belli che disintegrati.
Dunque, dicevo, finalmente a Torino avrò un soffitto tutto per me, su cui dipingere la vita, il caso…già il caso, e pensare che una volta credevo nel destino! Naturalmente ora non ci credo più. Che idee balzane e folli avevo in testa solo poco più di un anno fa! Credevo che il mondo intero si potesse piegare ad assecondare le capricciose velleità di una ragazzina smodatamente poetica, come ero io.
Così anche le coincidenze più stupide,
che sarebbero parse insignificanti al resto del mondo, come un sassolino bianco trovato nella tasca di una giacca, una lista della spesa raccolta per terra o anche una parola letta per più di una volta nell’arco di una giornata, magari di mattina su un libro e di sera su un cartellone pubblicitario, assumevano ai miei occhi dimensioni spropositate; queste si facevano foriere di messaggi incredibilmente elevati quanto imperscrutabili, poiché le congiunzioni astrali e le entità celesti le avevano volute. Oltre che a calpestare ogni razionalismo scientifico, il mio finalismo era della razza più becera, poiché si trattava solo di un mezzo per giustificare ciò che mi capitava e le elucubrazioni che ne conseguivano, essendo sempre stata io una ragazza dotata di grande fantasia.
Il culmine del mio delirio simbolista credo si possa collocare in questo episodio: camminavo per strada, assorta in alcuni ragionamenti circa una vicenda amorosa che allora mi impegnava molto a livello sentimentale e su cui congetturavo costantemente, essendo questa una storia molto tormentata.
Avevo convocato l’individuo in questione per un ultimo colloquio, decisa com’ero a lasciarlo e ad espellerlo dalla mia vita una volta per tutte. Nell’attesa di lui camminavo febbrilmente avanti e indietro per Viale Abruzzi, quando, frugando nella tasca, trovai per caso in quella giacca che non mettevo da un po’, un centesimo, proprio quel centesimo che avevo trovato e conservato la sera in cui tra di noi era scattata la scintilla. In preda all’angoscia ho scagliato il centesimo per terra, nelle grate di un garage, ma Dio o chi per lui, volle che questo rimanesse incastrato esattamente tra due griglie.
Non fosse successo! Interpretai questo come un chiarissimo segno della Sorte
e finalmente con il cuore in pace, decisi su due piedi di lasciar perdere tutto e di portare avanti come se niente fosse quella relazione, tuttavia tutt’altro che soddisfacente. Questo repentino cambio di programma si può altresì attribuire al mio tipicamente illogico ed esasperante romanticismo. Nel frattempo le bandiere del fallimento garrivano funeste al vento impetuoso del senno di poi. Ma a proposito di romanticismo…l’amore, anzi l’amòre, (chissà perché a Torino lo dicono con la o aperta) a Torino sarà facile come visitare il Museo Egizio. Io e lui, un lui qualunque, indefinito e splendido, sulla splendida Mole Antonelliana!
L’amore a Torino ha il sapore dei gianduiotti e la voce di Paolo Conte quando canta Via via, Vieni via di qui e io arrivo, addio Sara, mi prendo il soffitto! Mi prendo una cioccolata! Mi prendo il mondo! Questa volta non c’è centesimo che tenga, non cambierò idea. Giuro, appena posso io parto, sto già partendo! Sono già là! Perché It’s wonderful, It’s wonderful, It’s wonderful. Good luck my baby.
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