Articolo di Enrico Liverani
HA SENSO PARLARE PRETTY PRINCESS?
Ho sempre creduto (C’E’ ANCORA DOMANI: LE RAGIONI DI UN SUCCESSO - LibertyClub) che il cinema più commerciale, quello pensato per il pubblico di massa, abbia avuto un’importanza innegabile nella storia della “settima arte”. Ovviamente qui nessuno sta paragonando Pirati dei Caraibi con La corazzata Potëmkin, ma, al tempo stesso, come - giustamente - riconosciamo al capolavoro di Ėjzenštejn una grande importanza storica, così non possiamo ignorare l’impatto che la saga di Jack Sparrow ha avuto nella cultura pop degli ultimi vent’anni. Ritengo perciò, (excusatio non petita) che in un’epoca “post tutto e ante niente” (cit.) come questa, in cui Lino Banfi è rappresentante dell’Italia presso l’UNESCO, in cui il Governo Italiano dedica una serie di francobolli alle Winx e in cui i musei pubblici vengono affittati da imprenditrici estetiche per feste private, un articolo su questo film in un magazine culturale non sia fuori posto.
TRA FILM E REALTA’
Pretty Princess (titolo originale The Princess Diaries) è un film del 2001 prodotto dalla Disney e tratto dall'omonima serie di romanzi per ragazzi scritta da Meg Cabot. La storia vede protagonista Mia (interpretata da Anne Hathaway), una sedicenne di San Francisco che un bel giorno riceve la visita di sua nonna paterna Clarisse (interpretata da Julie Andrews), proveniente dal fittizio stato europeo di Genovia. La visita, però, non è solo di cortesia, in quanto la donna è venuta per informare la nipote che lei è la legittima ed unica erede al trono di Genovia e che, quindi, è a tutti gli effetti una principessa. Il defunto padre di Mia - con cui la ragazza non aveva mai avuto un gran rapporto, limitandosi l’uomo a qualche regalo e una lettera ogni tanto - era, infatti, membro della famiglia reale di Genovia. I genitori di Mia si erano conosciuti all’università e si erano lasciati poco dopo la nascita della ragazza con l’accordo che questa avrebbe vissuto con la madre in America, mentre il padre sarebbe rimasto a Genovia. La morte dell’uomo, insomma, costringe Clarisse - regina di Genovia - a recarsi oltreoceano per convincere la nipote a trasferirsi con lei nel regno dopo essere stata educata ad essere una principessa perfetta. In questi giorni trascorsi assieme nonna e nipote impareranno a conoscersi e Mia alla fine dovrà decidere se rimanere a San Francisco o se trasferirsi in Europa per assolvere i suoi doveri reali.
In generale, mi sento di dire che Pretty Princess, al netto della sua leggerezza e di un secondo atto troppo lungo che va avanti a forza di gag, sia un film più che godibile a qualsiasi età. Da piccoli, infatti, è un buon modo per entrare in contatto con una storia appena più complicata di quelle per l’infanzia, e da grandi è ottimo per una serata senza pensieri. In più fa genuinamente ridere per disperazione o per divertimento, senza mai essere cringe. Gran merito per questo va alle due protagoniste: Anne Hathaway, qui al suo esordio assoluto, recita con freschezza e brio mostrando i semi di quel talento che sarebbe sbocciato solo pochi anni dopo, mentre Julie Andrews giganteggia con la sua solita eleganza, riuscendo ad essere sia una composta regina che un’amorevole nonna (del resto lei è sempre Mary Poppins: praticamente perfetta sotto ogni aspetto).
È interessante fare un parallelismo tra i due personaggi principali e le attrici che li interpretano. Come, infatti, la regina Clarisse insegna a Mia ad essere una principessa, così Julie Andrews insegna ad Anne Hathaway ad essere non una semplice attrice, ma una diva. In quest’ottica è la stessa Hathaway, in un’intervista del 2024 a Vanity Fair, a dire di aver imparato moltissimo girando Pretty Princess e riconosce che Garry Marshall e Julie Andrews «sono due delle persone più magiche che abbia mai incontrato». A proposito di Andrews, inoltre, la protagonista ricorda come l’avesse colpita il suo dedicare del tempo per firmare autografi ai fan alla fine di ogni giorno di riprese:
«Lei riconosceva il fatto che [i fan] avessero una relazione con il suo lavoro che coinvolgeva le loro vite e gli ha regalato una bellissima esperienza. [...] Ho imparato che voglio comportarmi in un modo per il quale sarò orgogliosa in futuro»
Ma Pretty Princess non è solo una storia sul diventare una celebrità, è anche una presa in giro della percezione esagerata che le persone comuni hanno delle celebrities. Nel film notiamo, infatti, come, alla scoperta del titolo regale di Mia, tutti cambino l'atteggiamento nei suoi confronti: la cheerleader snob e antipatica dice ai giornalisti di essere la sua migliore amica, l'insegnante che nemmeno si ricordava il suo nome si inchina (letteralmente) davanti a lei e il belloccio che - ovviamente - non l’aveva mai notata inizia a farle la corte. Non parliamo, come è evidente, di una satira sagace ed elaborata, ma questa serie di figure clownesche, ammaliate dalla fama per arrivismo o stupidità, ci fa comunque sorridere. Del resto il mondo pullula di quei personaggi “famosi per essere famosi”, che godono di un seguito e di una popolarità enormi a fronte di un talento esiguo per non dire nullo. Pretty Princess, però, prende in giro coloro che danno popolarità a questi personaggi, subendone volenti o nolenti il fascino. Emblematica la scena in cui Mia e sua nonna fanno un incidente con l’auto e, per evitare guai alla nipote, la regina si inventa su due piedi un’onorificenza e nomina “cavalieri” il poliziotto della stradale e il tranviere coinvolto nello scontro. I due, emozionatissimi, dimenticheranno in fretta l’accaduto e nella scena finale verranno invitati al ballo reale come ospiti d’onore (!).
DIVENTARE SÉ STESSI
L’unica persona a non cambiare atteggiamento a seguito della rivelazione su Mia è proprio Mia. La ragazza, infatti, non si sente adeguata a diventare principessa e un giorno regina: è insicura, non si piace esteticamente e quando deve parlare in pubblico ha dei conati di vomito. E se per il lato estetico nel film sembra bastare una sessione di trucco e parrucco, la sicurezza in sé stessi e la capacità di rappresentare un Paese intero non si imparano in un giorno. Nemmeno il tenore di vita assai più agiato che troverebbe a Genovia la attira: a Mia non manca nulla, da una madre e una nonna che la amano a degli amici veri. Alla fine del film, insomma, avendo trovato anche l’amore, la protagonista è propensa a rinunciare formalmente alla linea di successione al trono per vivere la sua vita normale. Sarà una vecchia lettera che il padre le aveva scritto prima di morire a farla desistere. Il genitore la incoraggiava, infatti, a non avere paura e ad essere coraggiosa, asserendo che «il coraggio non è la mancanza di paura, piuttosto la consapevolezza che qualcosa sia più importante della paura stessa» e che «l'impavido forse non vivrà in eterno, ma il timoroso non vivrà affatto». Colpita da queste parole, la ragazza capisce che, sì, è inadeguata sotto vari aspetti a un ruolo che, in fin dei conti, nemmeno ha scelto di ricoprire, ma capisce anche di avere una responsabilità più alta delle sue insicurezze e, soprattutto, che tali insicurezze si possono risolvere. Pertanto, rinuncia alla via più facile (e al finale cinematograficamente più scontato) per trasferirsi a Genovia con la nonna e la madre, ricordando le parole con cui suo padre chiudeva la lettera:
«D’ora in poi percorrerai il percorso fra chi pensi di essere e chi puoi diventare. La chiave di tutto sarà permettere a te stessa di compiere il viaggio».
UN FILM GENERAZIONALE
Alla regia di Pretty Princess fu chiamato Garry Marshall, già autore del celeberrimo Pretty Woman (da qui, probabilmente, il deprecabile titolo italiano). Non, quindi, un semplice mestierante come ci si aspetterebbe di trovare all’opera su una commedia adolescenziale come questa, ma un veterano di Hollywood, responsabile non solo di un cult come il succitato Pretty Woman, oltre che creatore di una serie storica come Happy Days. Parliamo, insomma, di un regista che sa realizzare opere che possano piacere al grande pubblico intercettandone perfettamente i gusti. Pretty Princess fu proprio questo: oltre ad un incasso di 165 milioni di dollari a fronte di un budget di “soli” 26, infatti, possiamo dire che fissò gli standard per quel tipo di teen comedy che fu dominante al cinema e in TV per quasi un decennio. Se, perciò, guardandolo oggi ci pare di riconoscere in esso cliché già visti e già noti è perché sono (anche) nati qui. Il film di Marshall, infatti, ridefinì in stile moderno i classici personaggi, quasi delle maschere, tipici del cinema di questo genere (la “secchiona”; la “bella-e-di-buon-cuore”; lo “sfigato”; il “bello-ma-superficiale"; la “bella-ma-cattiva”, e via discorrendo) e per questo può considerarsi il progenitore in senso cronologico e stilistico dei vari High School Musical, Hannah Montana e Glee. E se è vero che la qualità dei prodotti citati è opinabile (io stesso ricordo di aver provato una gran noia vedendo High School Musical), ricordiamo che si tratta di franchise che hanno generato un vero e proprio fenomeno per la generazione dei millenials. Oltre, ça va sans dire, ad introiti per centinaia di milioni di dollari. In questo senso, Pretty Princess è stato veramente generazionale.
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