Articolo di Enrico Liverani
Avvertenza ai lettori: l’autore si scusa, ma, al fine di un’analisi approfondita, nell’articolo che segue saranno presenti spoiler. La sua speranza è che coloro i quali smetteranno adesso di leggere per andare a recuperare il film vorranno tornare qui a visione finita.
Il Cinema è in crisi. Lo so, non è forse la frase che ci si aspetta di leggere in una rubrica di appassionati recensori; ma, per quanto non ci possa dar piacere ammetterlo, i numeri parlano chiaro: nel 2013 negli Stati Uniti (il mercato cinematografico per eccellenza) sono stati venduti 1,34 miliardi di biglietti, mentre dieci anni dopo, nel 2023, gli spettatori paganti sono stati 845 milioni. E possono essere molteplici le ragioni di questa crisi, dallo strascico ancora pesantissimo della pandemia del Covid-19 alla concorrenza delle piattaforme streaming (anche se nemmeno loro sembrano passarsela così bene: ma questa è un’altra storia). Restringendo ulteriormente il campo di questa analisi sorge spontaneo un quesito: il Cinema Italiano come è messo? Come si piazza la nostra industria nazionale in questa situazione di crisi?
Risposta: non solo la nostra industria si piazza male, ma, per certi aspetti, è persino difficile continuare a chiamarla “industria”. I cinema chiudono (nel 2000 le sale in Italia erano 1500, nel 2023 erano 1121 di cui 542 multisala), le produzioni italiane hanno perso appeal sul grande pubblico: nel decennio 1999-2009 per sei volte il maggiore incasso dell’anno è stato un film italiano, in quello successivo, invece, solo quattro, con l’aggravante che, di questi quattro, tre erano film del solo Checco Zalone. Quel che è peggio è che la realizzazione stessa di nuovi film sembra aver preso una piega discendente - è dell’aprile 2024 l’allarme di Nicola Maccanico, AD di Cinecittà: «abbiamo una ottima occupazione dei teatri di posa, ma principalmente per produzioni internazionali. In questo momento le produzioni italiane, perlomeno a Cinecittà, sono ferme».
Quanto però, secondo me, è più sintomatico di questa crisi del nostro Cinema è la percezione che ne hanno coloro che dovrebbero esserne gli spettatori privilegiati. Si è ormai diffusa l’idea che l’industria cinematografica del belpaese sia in mano all’intellighenzia (ovviamente de sinistra e radical chic), un club ristretto in cui sono tutti amici e hanno tutti le terrazze a Capalbio (e qui chi vuole apparire intelligente parla di “egemonia culturale”), in cui i soliti volti fanno i soliti film, film che dipendono dai contributi statali e/o regionali e che in sala incassano una miseria. Lo so, siamo dalle parti del populismo più becero - difatti l’incommentabile Gennaro Sangiuliano, Ministro della Cultura nel Governo Meloni, ha parlato di “registi che guadagnano milioni di euro e poi fanno film con quattordici spettatori”, che vanno infine ad «organizzare quella terrazzata romana della gauche caviar, detta con la erre moscia, e che si raccontano tra di loro di essere i migliori, queste persone che ci guardano dall'alto verso il basso». Ma se facciamo appello alla nostra onestà intellettuale e riusciamo a sorvolare sull’origine del pensiero di Sangiuliano, possiamo riconoscere una certa veridicità in questa percezione. Anche ammettendo, infatti, che Giuliana De Sio («nel cinema lavorano sempre le stesse persone: è un circoletto») e Alessandro Borghi («Mi dispiace che il sistema di votazione dei David di Donatello non preveda l'obbligo di vedere tutti i film, si finisce per votare sempre per gli amici degli amici») parlino per loro stessi e loro stessi soltanto, è dura non notare come sia pesante il contributo ministeriale per il settore cinematografico-audiovisivo (nel 2023 gli stanziamenti del Ministero della Cultura, fra sgravi fiscali ed investimenti diretti, hanno raggiunto un totale di 746 milioni di euro), come spesso alcuni attori tendano ad essere “prezzemolini” (il pur bravo Edoardo Leo, per esempio, nel 2023 ha partecipato a cinque film come protagonista) e, soprattutto, come quasi sempre il riscontro di pubblico sia misero (la totalità dei film italiani nel 2023 ha incassato 120,6 milioni di euro; i cinque film di Edoardo Leo, invece, hanno raccolto, in totale, poco meno di 4 milioni).
In questo contesto, prepotente si fa largo C’è ancora domani, esordio alla regia di Paola Cortellesi uscito in sala nell’ottobre 2023 e risultato subito un grandissimo successo, incassando 36 milioni di euro (a fronte di una spesa di 5), vincendo sei David di Donatello e venendo distribuito, altro caso più unico che raro per un film italiano, in diciotto paesi dal Marocco alla Germania, dalla Francia all’Australia, dal Regno Unito all’Argentina. La ragione primaria di questo trionfo è senza dubbio nella stessa Paola Cortellesi, la quale, dopo gli esordi da cabarettista in cui ha interagito con tutti i grandi della comicità televisiva italiana (pensiamo a nomi come Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Serena Dandini e la Gialappa’s Band) si è imposta come alfiera del cinema del belpaese nell’ultimo decennio: un’attrice completa, in grado di coniugare il plauso della critica (vedi il David di Donatello vinto per Nessuno mi può giudicare nel 2011) con il successo al box office (e qui pensiamo agli oltre 10 milioni di euro ottenuti da Come un gatto in tangenziale nel 2017). La Cortellesi, insomma, ha mostrato negli anni di avere, oltre ad un innegabile talento, il carisma necessario per reggere ruoli da protagonista assoluta e rendersi un volto riconoscibile sia per il pubblico che per i media. Era quindi in una certa misura naturale che prima o poi l’attrice avrebbe fatto il salto dietro la macchina da presa. Abbiamo già individuato un elemento importante nella nostra ricerca: la presenza di un volto forte, ascrivibile a quanto di più simile ad uno star system si abbia nell’Italia contemporanea, e un volto con cui il pubblico possa in ultima analisi identificare il film.
L’opera narra le vicende di Delia (interpretata dalla stessa Cortellesi), una donna della borgata romana nel secondo dopoguerra durante l’ultimo periodo dell'occupazione alleata dell’Italia. La protagonista si arrangia alla meglio con vari lavoretti per provvedere al mantenimento della famiglia, formata da suo marito Ivano, dai loro tre figli e dal suocero Ottorino. La quotidianità della donna, tuttavia, è scandita anche dalle violenze fisiche che subisce costantemente e in silenzio da parte del marito, come in silenzio sopporta l’ingiustizia di essere pagata meno dell’ultimo arrivato al lavoro “perché lui è omo, no?” e sopporta di non essere rispettata da Marcella, la maggiore dei suoi figli, che le rinfaccia sempre questa sua indole passiva. Un giorno, però, Delia riceve sia una lettera (il cui contenuto non viene rivelato subito) che una proposta: mollare tutto e trasferirsi al Nord con Nino, un suo vecchio amore. Il film riesce ad ingannare lo spettatore, convincendolo che le azioni della protagonista (mettere da parte dei soldi, cucirsi un vestito nuovo, uscire di casa di nascosto dal marito) siano il preludio alla fuga da quella vita. La realtà è che in quella lettera ricevuta da Delia c’era la tessera elettorale, valida per partecipare alle elezioni del 2 e 3 giugno 1946 per la formazione dell’Assemblea Costituente e la scelta fra la Repubblica e la Monarchia.
Come ho sostenuto prima, il film è completamente al servizio di Paola Cortellesi, la quale appare praticamente in ogni scena. Nonostante ciò, il suo lavoro di regista e di sceneggiatrice le consente di valorizzare anche gli altri attori del cast; cast decisamente variegato che vede, accanto ad attori affermati (su tutti: un grandissimo Valerio Mastandrea nei panni del marito carogna di Delia ed Emanuela Fanelli nei panni di Marisa, la migliore amica della protagonista), un folto gruppo di caratteristi, attori scelti per la loro fisionomia, per la loro capacità di dare corpo a degli archetipi, a dei “caratteri”, appunto. Il recupero della figura del caratterista è solo una delle tante ispirazioni che C’è ancora domani deve alla stagione del Neorealismo; pensiamo anche alla scelta di girare il film in bianco e nero (anche se, parafrasando Guia Soncini, è più “un bianco e nero da spot di Dolce e Gabbana che da film di Vittorio De Sica”) e all’utilizzo del romano non come inflessione egemone dell’italiano, ma come un dialetto puro, una lingua autentica, parlata da un popolo con una sua identità. Questi riferimenti ai grandi maestri del Cinema Italiano nascondono, tuttavia, una differenza nella quale, secondo me, si trova il vero motivo del successo di C’è ancora domani.
Quando, infatti, pensiamo al Neorealismo e a film come Ladri di biciclette, Roma città aperta e Accattone, pensiamo a film che fotografano una realtà umile e ne fanno la cornice per una storia di vita quotidiana, plausibile, quasi sempre drammatica e, seppur priva di riferimenti politici espliciti, con un fine di denuncia e di educazione sociale; C’è ancora domani, invece, inserisce in ambientazioni neorealiste una storia di determinazione individuale, una protagonista che attraverso il voto politico si afferma sia come donna che come cittadina italiana. La vita di Delia e delle altre donne presenti nel film, infatti, non è detto che migliorerà, magari sarà peggio, magari sarà uguale; ma intanto è stata tracciata una linea, come a dire: adesso esistiamo anche noi.
C’è ancora domani, pertanto, utilizza il genere più popolare e più nobile (la commedia) e il linguaggio dei Grandi Maestri per parlare al pubblico di oggi e per veicolare dei messaggi politicamente universali: la realizzazione della donna nella società patriarcale e nel contesto della disparità di genere (componente che potremmo definire più “sinistra”) e l’appartenenza alla Repubblica ed alla Nazione come parte fondamentale della propria identità (componente più cara “alla destra”). Il film risponde positivamente a tutte le critiche da me mosse prima al cinema Italiano: attori conosciuti e di talento, più famosi per la loro bravura che per il loro supposto “attivismo”, ma comunque in grado di far presa sul grande pubblico, un genere ed un linguaggio capace di parlare a tutti gli spettatori e messaggi che non passano inosservati e generano (alleluia!) dibattito non solo sui media, ma anche negli spettatori generalisti, non limitandosi ai soli appassionati di cinema. Aggiungiamo anche il fatto che l’opera prima di Paola Cortellesi è stata esclusa dall’erogazione di finanziamenti pubblici in quanto ritenuto “progetto di opera non giudicata di straordinaria qualità artistica in relazione a temi culturali, a fatti storici, eventi, luoghi o personaggi che caratterizzano l’identità nazionale”; questo evento ha rappresentato, paradossalmente, un punto di forza per il film, in quanto ha dimostrato che il cinema, se fatto bene, si ripaga da sé, senza sussidi. C’è ancora domani, insomma, è un film virtuoso sia dal punto di vista artistico che dal punto di vista economico.
Non chiuderò questo articolo parlando di un fantomatico “Modello Cortellesi”, come se esistesse una ricetta magica che, partendo dal lavoro dell’attrice romana, possa risolvere tutt'a un tratto la crisi del nostro Cinema. Non funziona così: occorrono progetti, investimenti ed una nuova cultura industriale, cose che non si inventano in un giorno o due. Comunque andranno le cose, quindi, C’è ancora domani resterà un film notevole, ma sarà il futuro a dirci se sarà stato solo un sussulto di vita in un momento di crisi o se davvero avrà saputo dare il via ad una nuova epoca, prendendo il suo posto nella Storia del Cinema Italiano.
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