MARIE ANTOINETTE E LA SUA RIVOLUZIONE POSTMODERNA

Articolo di Giulio Paroli

Come fanno Marie Antoinette e la parola “rivoluzione” a stare nella stessa frase? Lei, l’ultima regina prima della Rivoluzione francese, immagine per eccellenza di un’aristocrazia troppo lontana dai bisogni dei cittadini; colei alla quale addirittura si attribuisce la paternità della celebre frase “che mangino brioches” pronunciata riferendosi al popolo che aveva finito il pane. Ebbene, come mai questo titolo quasi ossimorico?

Chiariamo subito che la rivoluzione, in questo caso, la fa Sofia Coppola, non la sovrana francese. La regista, infatti, prende come pretesto la storia di Maria per rivoluzionare un genere; o meglio, per fare un esperimento artistico. Un collage, fatto inserendo elementi della moderna cultura pop nella biografia di una donna del ‘700. Un film che dovrebbe essere un (pesante) dramma storico, ma che diventa tutt’altro: un emblema del postmoderno, che fa del riuso spregiudicato dei riferimenti iconografici del passato e della mescolanza con la cultura di massa i suoi cardini essenziali. Un film (e un movimento) dove sacro e profano si mischiano senza soluzione di continuità, con una facilità e una naturalezza a tratti spiazzante.

Il mix fra ambientazione settecentesca e pop-culture è tanto azzardato quanto efficace. Funziona fin dalla prima immagine, con quella posa così spregiudicata di Maria Antonietta, degna delle migliori copertine di Vogue degli anni 2000, e continua con l’inserimento di musiche del XX e XXI secolo (si arriva addirittura a sentire Kanye West!). Tutte cose che, se in un primo momento possono lasciare interdetti, con l’incedere del film realizzano un meraviglioso connubio con le bellissime riprese della corte del Re di Francia; si pensi, per esempio, alla bellissima scena in cui Maria e i suoi amici, dopo la festa di compleanno della protagonista, vanno a vedere l’alba correndo per i prati di Versailles accompagnati dalle note di Ceremony dei New Order.
Ma forse questo peculiare accostamento, questo guizzo postmoderno non è solo una frivolezza stilistica. Forse è qualcosa di più, forse vi si può dare una lettura anche a livello contenutistico, e lo si può fare partendo da un presupposto preciso: se è vero che Sofia Coppola con questo film trasforma una biografia storica in una commedia adolescenziale (senza che questo termine abbia alcunché di dispregiativo) nella quale racconta la persona dietro all’immagine di sovrana distaccata, è altrettanto vero che più in generale è interessata a raccontare una generazione; o meglio, una fase che tutte le generazioni hanno attraversato, seppur in modo diverso: l’adolescenza. Tramite Antonietta si raccontano i dolori, le speranze, gli amori, le delusioni e le frustrazioni di coloro che attraversano quella tanto complicata (quanto spensierata) fase della crescita che è l’adolescenza. Anche nella vita di una sovrana del ‘700 si ritrovano le fughe d’amore, i vizi dell’alcool e del gioco, la solitudine e il senso di inadeguatezza che tutti gli adolescenti di tutte le generazioni hanno provato.

E questa sorta di universalizzazione del messaggio viene sottolineata proprio dagli elementi della cultura pop inseriti all’interno della pellicola: è come se la Coppola, tramite questi ultimi, volesse rompere la coerenza temporale che dovrebbe caratterizzare questo film, trasportandone i contenuti in una dimensione atemporale, eterna, trasversale al tempo e allo spazio.
Abbiamo detto che la regista prende come riferimento la vita di Maria Antonietta nella sua giovinezza ricavandone prima di tutto il ritratto di una ragazzina; una diciottenne che, nonostante la sua immaturità, è sottoposta a enormi pressioni ed aspettative. Ma anche i punti in comune tra la storia della protagonista e della regista sono più di quelli che si possano pensare.  Se sulla prima, nella fase adolescenziale, si riversano le pressioni dettate dal fatto che un giorno sarà Regina di Francia, sulla seconda peserà il fardello di portare un cognome così opprimente; cognome che sarebbe stato ingombrante in qualunque ambito lavorativo, figuriamoci quanto può esserlo stato in ambito artistico e, in particolare, cinematografico. Con Marie Antoinette la regista mostra quella parte di sé più testarda (o determinata?) di chi riesce ad andare oltre i chiacchiericci di palazzo (Versailles o Hollywood, poco cambia) e riesce ad affermarsi nonostante l’etichetta di “raccomandata” che a inizio carriera le era stata affibbiata da pubblico e critica. Ma saranno proprio i critici i primi a ricredersi e Sofia Coppola negli anni saprà diventare un’autrice di riferimento per i registi di nuova generazione, riconosciuta in tutti i principali premi cinematografici (tra cui un Oscar per la sceneggiatura nel 2004, il Leone d’Oro a Venezia nel 2010 e il Premio per la Regia a Cannes nel 2017).

E allora l’amore che la Coppola mette nel personaggio di Maria, la cura nei suoi primi piani e nella scrittura dei suoi tratti emotivi più profondi, sono indice di un sincero affetto della regista nei confronti di quello che è, a tutti gli effetti, un suo alter ego: Sofia tramite Maria Antonietta parla contemporaneamente al pubblico e alla sè stessa adolescente, prendendosi una rivincita nei confronti del primo che l’aveva giudicata troppo superficialmente, e coccolando dolcemente la seconda, conscia del fatto che alla fine avrà ragione lei.
n questa rivoluzione postmoderna, merita un appunto anche l’aspetto tecnico. Perché è come se la regista newyorkese fosse consapevole di star facendo qualcosa di nuovo; e allora ad un cambiamento nel contenuto deve per forza seguire un cambiamento nella forma. E quindi niente grandi inquadrature d’insieme, niente campi larghi a riprendere le grandi regge e i ricchi sfarzi della corte reale. Al loro posto primi piani e campi stretti sul volto della protagonista e dei suoi compagni di avventura, a sottolinearne ogni tratto emotivo, ogni smorfia, ogni sorriso, ogni sguardo. Sia chiaro, non che le suddette tradizionali inquadrature, proprie dei drammi storici in costume, siano state eliminate dalla pellicola; semplicemente su di esse non c’è quell’indugio (che talvolta diventa abuso) che si riscontra nella maggior parte dei film di questo tipo. Siamo, infatti,  davanti a uno scavo psicologico che parte dalla regia, dai volti e dai dettagli, prima ancora che dalla sceneggiatura e dai dialoghi (si pensi che nella prima parte del film Maria Antonietta non dice più di cinque/sei brevi battute). Insomma, dimentichiamoci la pulizia e la staticità delle trionfanti riprese dei drammi storici, sempre così precise e con immagini grandemente composte (si pensi alla maniacalità della costruzione Kubrickiana in Barry Lyndon) e notiamo, al loro posto, una regia ben più dinamica, fluida, spontanea, che finanche non disprezza l’uso della macchina a mano.
In conclusione, Marie Antoinette di Sofia Coppola è più di una semplice biografia rivisitata. È un affresco postmoderno che parla a più generazioni tramite la vita di una sola ragazza: Maria Antonietta risulta un personaggio sfaccettato e complesso, ma allo stesso tempo semplice nella sua genuinità adolescenziale; le sue fughe d’amore, le sue speranze, i suoi errori, la sua immaturità sono gli stessi della quasi totalità degli adolescenti di tutto il mondo di tutti i tempi. Certo, con le dovute differenze date dai cambiamenti di sensibilità e società; ma, forse, alcuni atteggiamenti (e sentimenti!) tipicamente giovanili dei ragazzi protagonisti del film non sono poi così diversi da quelli degli adolescenti di oggi.

Ed alla fine, l’autrice riesce nell’impresa per certi versi titanica quella della regista di far empatizzare lo spettatore, seppur nello spazio della finzione cinematografica e per solo due ore, con uno dei personaggi storici più odiati di tutti i tempi, simbolo universale della ricca e sprezzante nobiltà dell’Ancien Régime: Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-Lorena, per tutti Maria Antonietta.