Anche oggi non mi sono fatto la doccia. Posticipo da più di una settimana ormai. Ho i capelli unti, la pelle tesa, ogni piccolo movimento mi genera sconforto. Quando mi tocco il viso ho l’impressione di averlo tenuto immerso a lungo in una focaccia gonfia, cosparsa d’ olio e rosmarino. Ho bisogno di lavarmi e di farlo al più presto. Inizio ad avvertire i princìpi di una fastidiosa otite ad entrambe le orecchie. Correlo il sintomo alla malattia: lo sporco. Lo sporco è la malattia, certo, ma per lo più si tratta di un male dell’anima con conseguenze corporali. Se sei sporco ti ammali fisicamente, se non ti tieni finisci per beccarti un qualche malanno. Dove l’ho sentito dire, come mai lo so? Me lo hanno insegnato a scuola? L’ho sentito in televisione? L’ho imparato a mie spese? “Se non ti lavi ti viene l’otite, poi dopo un po’ la febbre”, diceva così Bianca, una tizia stramba, scoppiata, un’ex tossica. Alla fine del liceo aveva iniziato a farsi le pere, quelle vere, di eroina, poi l’avevano portata in comunità e aveva praticamente smesso. “Praticamente”, lo aggiungeva sempre e non passava mai inosservato. Era Toscana, di Livorno. Dato che gli unici eroinomani che ho conosciuto venivano proprio da lì, la cosa non mi stupiva più di tanto. Parte del centro Italia è rimasta bloccata al Novecento, a quanto pare persino nel campo delle dipendenze.
Comunque Bianca mi svelò questo segreto: se posticipi a lungo la toeletta, poi, le orecchie iniziano a fischiare e a dolere piano piano. Ti sale il mal di testa e sei fregato. Dopo pochi giorni ti ritrovi a letto con l’influenza. Me lo disse una mattina, fuori da un enorme ecomostro in scala di grigio ironicamente chiamato Palazzo Nuovo, sede di tutte le stronzate umanistiche, baronesche e fuffose dell’Università di Torino. La fece cadere dal cielo come una massima di quelle già sentite, con un “ovviamente” di corredo invece del suo solito “praticamente”, a indicare che sì, era per quel motivo che al mio “come stai?” aveva risposto con un “ho l’otite”. Nessuna ansia per l’esame che avremmo dovuto sostenere a breve. Mi attraeva terribilmente Bianca, lei e i suoi denti storti mal curati, avrei voluto scoparci, lì su due piedi, fino a perdere i sensi. Non gliene fotteva un cazzo a Bianca, di se stessa e del mondo, diceva queste cose così, senza pensare a chi aveva di fronte. Forse era questo atteggiamento, stracazzuto e strafottente, a mandarmi in palla la produzione ormonale. Non ci finii mai a letto, nonostante tutto. Nonostante le volte in cui ubriaco pensai di correrle sotto casa e suonar forte al campanello, fino ad ottenere perlomeno un bacio bagnato ricco di gemiti e un sonno condiviso e letargico.
Mi viene in mente oggi, Bianca, non solo per lo sporco che ho lasciato stratificare sul mio corpo, un’armatura contro il mondo esterno, un eterorepellente per evitare ogni genere di invasione, ma perché mosso dalla stessa rabbia disperata che mi portava ad inconsulte erezioni alla minima fantasia coinvolgente quella tossica toscana di buona famiglia e ben poche prospettive, poco fa sono stato in stazione, e seduto sui tavolini di quel bar di passaggio, aperto dalla prima mattina alla notte fonda, tutti i giorni, sette giorni su sette, ho conosciuto una donna che non mi ricorda per niente Bianca, luminosa, curata, quasi al traguardo della mezza età. Giovanna si chiama, ha un figlio, fuma quelle sigarette lunghe e bianche che sono stato abituato a complementare con un “da puttana”, ma che a parer mio han sempre saputo dare un fascino raro a chi le sceglie, uomo o donna che sia. Giovanna ha gli occhi chiari come i pastelli con cui i bambini colorano il cielo. Porta un foulard legato in fronte, una scelta atipica, singolare. Mi dice che ha un figlio di diciassette anni e che è appena stata al funerale di un suo compagno di classe. È morto in moto, sotto la pioggia. “Mi dispiace”, le dico, lei sorride e si sente male al pensiero che possa capitare al suo Luca, che lei chiama con professionalità “mio figlio”; sono io a doverle chiedere il nome.
Questa però è solo la superficie, la scocca: in corso c’è un contatto, una storia sotterranea già annunciata che lenta scava per sbucare alla luce del sole. Lacrime accennate e frasi che stringono il cuore, Giovanna mi guarda e io la guardo, gli occhi di entrambi si sciolgono dolcemente, lei mi dice che si è fatto tardi e che deve andare, non posso che propormi di accompagnarla alla macchina. Camminiamo lenti; guarda giù e guarda su. Sorride. Denti sbiancati, smerigliati, con incisivi perfetti nonostante l’età, le sigarette, l’igiene orale intermittente dovuto ai turni in fabbrica (così suppongo, romanticizzo: che stupido! In reparto non ci si può portare lo spazzolino?). Si ferma di fronte a una multipla blu, mi dice “beh, ci rivedremo qui per comprare le sigarette”. Io sorrido e mi chino sul suo volto, il suo corpo risponde. Prima del contatto un formicolio esplosivo parte dalle labbra e raggiunge le tempie fino a spegnersi nel batticuore. Sa di menta e profumo il bacio di Giovanna, mi sento un intruso, ma la sensazione dura solo pochi secondi e ci schiacciamo sul finestrino. “Aspetta, spostiamo la macchina”, sussurra ed eccoci sulla multipla blu, ora poco più in là sotto i rami di un albero incolto; io sul sedile del passeggero, lei sopra di me a cavalcioni, le braghe di entrambi alle caviglie: nulla di più ridicolo di un essere umano con i piedi impelagati in un paio di pantaloni, ma qui non c’è spazio per la commedia. Tiro fuori dal portafogli il Durex rosso che mio padre tredici anni prima si era raccomandato di tenere sempre con me, quindi nel portafogli, il posto più sicuro. Mi han poi detto che così si guastano e diventano inutili, che ne sapeva mio padre poi, poteva dispensar consigli in cose in cui era più competente. Comunque che dovevo fare in quella situazione? Insomma, indosso quel coso in plastica in fretta e furia, Giovanna con dolcezza mi aiuta, le entro dentro e ci uniamo per un tempo sufficiente a sentirci uniti, le tengo il pollice sulle labbra, poi sulla lingua, infine spingo fino all’ugola, soffia forte con il naso premendo sul mio collo, siamo uniti in qualcosa di diverso per entrambi, ma siamo uniti sì, in più di un senso. Tutto finisce quando è passato il tempo sufficiente per sentirci uniti, forse un pochino di più, forse un pochino di troppo, ma che cosa cambia in fondo? Restiamo lì, accaldati, le accarezzo la schiena sudata e le bacio la fronte, ci stacchiamo poi lentamente, con garbo e tatto. Nel giro di qualche minuto siam rivestiti a fumare in auto. Mentre Giovanna mi chiede di me con sincero interesse, mi fa i migliori auguri e se ne va.
Torno a casa e sono più leggero. Sporco come prima, ma è come se mi fossi lavato. È uno sporco che accetto, che non mi imbarazza. A Giovanna non ho fatto schifo, no? D’altronde nonostante rimandi i lavaggi integrali, mi faccio un accurato bidet ogni mattina. Forse non sono lezzo come mi racconto, come mi percepisco. Mi sento bene, bene per davvero. Banalmente bene; è stato bello? È la prima volta che non mi faccio schifo e non mi odio dopo un simile incontro. La prima volta in cui non mi sento un disgustoso odore di saliva estranea rincorrermi in ogni dove, la prima volta che non ho i conati di vomito al solo ricordo del volto della sconosciuta con cui ho appena scopato. La prima volta che non sento il bisogno di sfregarmi via dalla pelle un’altra persona, con sapone e acqua bollente. Allora perché, a questo punto, dovrei lavarmi? È qui che mi viene in mente Bianca e la sua cultura di prima mano su igiene e salute, Bianca che mi dà buone ragioni per cacciare via dalla mia delicata cute Giovanna e tutto ciò che ricordo di lei: evitare l’otite, la degenza, la mutua e ogni altra punizione.
Cerco Bianca su Facebook per rinfrescare i ricordi. Abita in un qualche paesino portoghese ora, si è tinta i capelli di un rosso tendente al castano. Per il resto è sempre uguale, identica a se stessa. Identica a se stessa e a Kim Gordon, con le sue guance scavate e quegli occhi rari che suppongono qualcosa di imprendibile. Certo, Kim Gordon non è toscana e la stacca di trent’anni almeno; nemmeno si somigliano così tanto, anzi forse non si somigliano affatto. Per me però Bianca e Kim Gordon sono fatte della stessa pasta e perfino con lo stesso stampo, sono la stessa persona per certi versi. Meglio: sono lo stesso concetto, la stessa idea, svolgono lo stesso ruolo nel mondo, nel mio mondo, nella mia fantasia, nel mio modo di organizzare fantasmi e ricordi.
Cosa ci dicevamo io e Bianca? Apro la chat: stronzate, parole a vuoto che nascondevano un’intenzione. Il pollice trascina la conversazione verso il basso, i messaggi scorrono rapidi, sfocati, fino a una sequenza di cui non avevo memoria. “Teo”; primo messaggio. “Sono a casa da sola stasera”; secondo messaggio. “Vuoi venire?”; terzo messaggio. “Ho del vino e mi annoio”; quarto e ultimo messaggio. Segue, due giorni dopo, una mia orribile risposta in blu: un lungo messaggio che inizia con “Ehi Bi, scusami ma…”. Insomma, sì, mi scusavo, e mi scusavo perché le stavo propinando una scusa del cazzo che addirittura ho vergogna di riportare integralmente tanto è esplicita e palese, una stronzata da paraculo, talmente imbarazzante che il mio cervello deve averla espulsa scandalizzato al solo pensiero di custodirla. Avevo lasciato scivolare via la mia occasione di condividere con Bianca quella che alcuni chiamerebbero un’avventura, persa così, dimenticata per giunta, rimossa, cancellata con un enorme pennarello nero. Ecco il motivo, la causa scatenante, che mi ha portato otto anni dopo, oggi, in stazione a cercare e trovare Giovanna, lei e il suo foulard a fiori, le sue sigarette sottili che durano così poco, in realtà non così poco, anzi forse un pochino di troppo, ma tanto non cambia nulla. Bruciano come tutte le altre sigarette e c’è poco da dire. Che misera spiegazione, una ridicola giustificazione, anzi una scusa del cazzo che rifilo a me stesso perché non posso rifilarla a nessun altro, men che meno a Bianca, che sta in Portogallo, immersa nelle colline verdi del suo paesello latino, con la sua nuova acconciatura e forse senza quel “praticamente” che tutti notavano.
Faccio sempre così, studio quel che succede con dovizia di particolari, poi trovo una spiegazione che mi aggradi e mi ci cullo con fare scientifico. Il fatto è che questo sono: non spiegazioni, ma scuse del cazzo! So benissimo perché oggi, otto anni dopo, sono andato in stazione a cercare Giovanna e la sua multipla blu, lo so con il corpo lercio con cui deambulo dolorante, perché cerco di muoverlo il meno possibile e ormai ho le articolazioni asciutte; non ne ho la più pallida idea nella testa invece, perché per ammetterlo davvero a me stesso, per dirlo ad alta voce ascoltandomi, resistendo alla mia codardia di fronte alla verità, ci vorrebbero delle palle che non ho, che non ho mai avuto. Altrimenti non avrei bisogno di una corazza di sporco per uscire di casa. E allora eccomi qui, sdraiato sul piumone che dovrei portare in lavanderia da più di una settimana, che perdo il tempo che potrei dedicare alla mia igiene personale, a rendermi presentabile, a trattarmi con dignità, per inventare delle scuse del cazzo che spieghino perché e per come quel giorno di mille anni fa, otto per la precisione, non ho nemmeno provato a dire a Bianca che, al di là dell’otite la trovavo incredibile, fuori da ogni norma e misura, irripetibile e speciale e che volevo stare nudo con lei, in un letto, e non in quella terrazza bollente fuori dall’università. Scuse del cazzo che mi invento e su cui mi trastullo pur di non ficcarmi sotto quel getto d’acqua incandescente, pur di non spogliarmi, nudo come un verme tra le piastrelle umide e fredde del bagno.
Finirà come è sempre finita. Mi addormenterò qui, su questo piumone blu scuro come i pastelli che i bambini usano per colorare le notti stellate, ancora vestito, ancora impresentabile, con in testa il pensiero che domani forse sì, la doccia sarà d’obbligo, inevitabile, pur sapendo che la eviterò ancora, e che in realtà, a dispetto di quel che mi racconto, se tornassi su quella terrazza non direi proprio nulla a Bianca, mi limiterei a sorridere e ad annuire cuocendo sotto il cielo di giugno.
Finirà così, che troppo stanco non riuscirò a svestirmi, e dormirò con la camicia addosso, con l’odore di Giovanna che mi copre. Farò solo il timido sforzo di calarmi i pantaloni fino alle caviglie, senza nemmeno aver la forza di sfilarli completamente.
P.S. Kim Gordon non ha gli occhi grandi di Bianca.

Sentirsi a casa
Mi trovavo in coperta e stavo sistemando le ultime casse di merce insieme ad altri marinai, gli stessi con i quali mi alternavo per il turno di guardia notturno e con i quali condividevo la branda. Eravamo immersi nel buio della cambusa e solo alcune lanterne emanavano una luce fioca in prossimità delle travi portanti.