Articolo di Matteo Scantamburlo
Se c’è un paese che nel corso dei secoli è stato costantemente meta di turismo di ogni tipo, questo è sicuramente l’Italia. Dai viaggi colti ed elitari dei giovani aristocratici del XVIII secolo agli spostamenti di massa del mondo globalizzato, l’inimitabile patrimonio storico della penisola l’ha resa una destinazione immancabile per qualunque viaggiatore. “Turismo”, del resto, trae il proprio nome dal “Grand Tour”, un viaggio per l’Europa continentale che tra gli intellettuali a cavallo tra Settecento e Ottocento era così diffuso da essere ritenuto un passo quasi indispensabile per guadagnare uno spessore e garantirsi un prestigio culturale in patria. Tappa obbligata, naturalmente, l’Italia. Questo costume mi ha sempre affascinato. Certo il “tour” non era un puro isolamento intellettuale, come spesso dimostra la partecipazione di questi viaggiatori agli eventi mondani più à la page delle città visitate, tuttavia è difficile dubitare del genuino interesse che muoveva molti di questi uomini quando si leggono alcune delle pagine dei loro scritti di viaggio - un esempio su tutti, quelle sul celebre malore di Stendhal a Santa Croce, che danno il nome all’omonima sindrome. Penso al Grand Tour, dunque, e penso al fatto che oggi possa forse servire persino di più a un italiano che a uno straniero, per recuperare un rapporto intimo e concreto con un territorio che i mezzi di oggi danno più che mai la possibilità di esplorare in forma astratta e virtuale. Non diversamente il rapporto con l’arte dei secoli scorsi, nata in un così verace contesto di bottega e oggi frantumata - e diffusa, e valorizzata - nella miriade di immagini ad alta definizione disseminate nel repertorio pressoché illimitato di Internet. Uno strumento straordinario, sul quale dopotutto si fonda tutta la mia erudizione di fervente appassionato, ma incapace, se non altro perché imprevisto dall’opera, di offrire i benefici della visione dal vivo - soprattutto se questa avviene nella località dove l’opera è stata data alla luce, magari addirittura nella sua collocazione originale. D’altronde quella dell’arte italiana è una storia di centri e province, di artisti che si muovono e comunicano con realtà diverse, di grandi corti in città che oggi appaiono piccole, insomma una storia indissolubilmente legata alla geografia di un paese allora così frammentato, ma che ancora oggi conserva nelle sue regioni caratteri tali da risultare un terreno di scoperta per i suoi stessi nativi. Per conoscere davvero dunque devo viaggiare - è una necessità più che un desiderio. Città grandi e piccole, conosciute o mai visitate prima: tutto può essere utile a capire, tutto sarà registrato in questo diario, per riflettere in modo concreto sulle testimonianze storico-artistiche che ho sempre apprezzato in forma più astratta e fissare il ricordo ricreando i momenti nelle parole, per rallentarne lo sbiadimento. Fatte queste premesse, non resta altro che partire.
Pesaro
La prima tappa è Pesaro. Sono solo di passaggio, ma mai sottovalutare ciò che una città può offrire anche in poche ore di sosta tra un treno e l’altro; l’importante è sapere dove andare, e io ho un piano ben preciso in testa, dunque mi incammino. La città è deliziosa, una di quelle che incantano i registi: tutti vanno in bicicletta, mangiano il gelato e sembrano felici. Queste immagini, insieme a quelle dedicate all’eroe locale Gioacchino Rossini, accompagnano i miei passi verso la prima meta del tour, i Musei Civici, che vedo aprirsi davanti ai miei occhi dopo l’arrivo della guardiana, la quale, in maniera del tutto coerente rispetto al clima disteso e pittoresco che si respira in città, arriva in bici. Entrando già immagino e pregusto il tipo di visita che mi aspetta, quella che solitamente si fa in un museo dalla collezione non particolarmente ricca ma con un grande capolavoro al suo interno, verso il quale ci si dirige lentamente guardando quasi con ingenuità le opere che lo precedono, facendo finta di ignorare il motivo principale della visita, in modo da creare un delizioso preambolo. Aprono la collezione delle tavole trecentesche di varia provenienza, sono opere piuttosto canoniche ma in qualche modo interessanti, tant’è che vi ronzo attorno con curiosità quando, mosso qualche passo nella prima stanza, scorgo con la coda dell’occhio un’enorme cornice dietro di me. È già qui. Consapevole ormai del fatto che il mio goffo piano di lento avvicinamento al capolavoro è saltato, guardo con una superficialità e un senso del dovere scanditi da una frenesia tutta interiore le restanti opere gotiche, per girarmi presto verso i 262 x 240 cm della Pala di Pesaro di Giovanni Bellini. Il colpo d’occhio è impressionante: l’opera è grande, luminosa e ben conservata; iconograficamente è dirompente: un’Incoronazione della Vergine [fig. 1] canonica nelle pose, ma ambientata - il che è eccezionale - in uno scenario naturale, con il paesaggio visibile dietro la spalliera del trono che fa da “quadro nel quadro”.
Fig.1
Vedendola dal vivo si comprende ancora di più come l’opera rappresenti un caposaldo della vasta produzione di Giovanni, segnando l’affrancamento dall’influenza del cognato Mantegna e l’assimilazione dei nuovi stimoli provenienti da Piero della Francesca e Antonello da Messina. Ciò che trovo più straordinario è però come Bellini riesca sempre, e qui in particolare, ad accogliere le suggestioni del tempo arricchendo uno stile che tuttavia rimane sempre straordinariamente personale. Certo, vedere quel pavimento marmoreo in prospettiva fa pensare a Piero, così come l’uso del colore ad olio rimanda - dispute cronologiche permettendo - all’esperienza veneziana di Antonello. Tuttavia la dolcezza del volto della Vergine, la commovente gestualità che la lega al figlio, non appartengono ad altri se non al sensibilissimo indagatore degli affetti umani che è Giovanni Bellini. L’occhio non viene deluso neppure cadendo sulla predella, che presenta scene meno innovative nello stile ma comunque di grande qualità esecutiva, specialmente lo statuario San Terenzio [fig. 2], che spicca per la singolare ambientazione urbana. Come prevedibile, la parte restante del museo è abbastanza trascurabile, se non per un’interessante Caduta dei giganti del tardo Guido Reni [fig. 3] e per le belle maioliche, ma comunque la grande pala basta e avanza per rendere rilevante una tappa che, dicevo, ho pensato anche come stazione di sosta.
Fig.2 || Fig.3
Dopo la visita mi dirigo infatti verso la seconda tappa del Tour, una città che oggi conta circa un quarto della popolazione di Pesaro, ma che per la sua importanza artistica rappresenta una meta imprescindibile per il viaggio; questo luogo è Urbino. Si va alla corte dei Montefeltro.
Urbino
Che Urbino non sia una città come le altre lo si capisce fin da quando ci si mette piede. Non c’è infatti una stazione né un altro mezzo di trasporto moderno che porti all’interno delle mura; si entra bensì dall’arco, a piedi, come dei pellegrini rinascimentali. Fin dall’ingresso si ha dunque l’impressione di una città fuori dal tempo, cristallizzata nel suo periodo d’oro - sensazione che viene confermata e amplificata una volta che si prosegue al suo interno, vedendo che anche i negozi e il supermercato sono inseriti nell’organismo urbano nel più ossequioso rispetto per l’architettura originaria. La città è di una bellezza irreale, piccolissima ma non ridente, bensì altera e monumentale, sospesa in un’atmosfera dal fascino quasi conturbante che rende difficile non descriverla come metafisica. Su questo traliccio di vicoli e casette troneggia il celebre Palazzo Ducale, simbolo immortale della potenza e del prestigio culturale di Urbino sotto Federico da Montefeltro. È questa la seconda tappa del viaggio, soprattutto per la presenza al suo interno della Galleria Nazionale delle Marche, che durante tutto il percorso museale appare perfettamente integrata nell’edificio, come se le opere avessero decorato quelle stanze fin dal Quattrocento. Sono infatti mantenuti i simboli scolpiti sul muro, le porte intarsiate, i camini e anche qualche arredo, tutti di raffinatissima fattura. Per quanto riguarda i quadri, la prima sala introduce alla collezione con opere quattrocentesche di artisti marchigiani o di passaggio a Urbino, tra cui Marco Palmezzano (principale discepolo del grande Melozzo da Forlì) con una bella Sacra famiglia e Alvise Vivarini con un polittico [fig. 4].
Fig.4
Per quanto interessanti, le suggestioni suscitate da questa prima sezione sono come cancellate una volta varcata la soglia della seconda sala, in fondo alla quale si scorge un dipinto inconfondibile, la Flagellazione di Cristo [fig. 5], opera simbolo del museo e del genio di Sansepolcro: Piero della Francesca. Balza all’occhio come il dipinto non sia inquadrato in una cornice, probabilmente per via della sua incurvatura verso l’esterno, dunque a prima vista appare un po’ spiazzante il contrasto tra il rudimentale legno della tavola e i colori della stesura pittorica, che risaltano in particolar modo nella visione dal vivo. Ed è una visione quasi rivelatrice: ammiro e contemplo quest’opera in foto da tutta la vita, ma solo adesso che mi ci trovo davanti ne comprendo la potenza luminosa; mai queste figure mi erano sembrate così chiare, mai la luce così avvolgente, mai quell’apertura sull’esterno così fondamentale.
Fig.5
La luce poi disvela tutto il resto, e la macchina prospettica messa in gioco da Piero è tale, nella sua precisione e nel suo rigore, da far passare, letteralmente, in secondo piano la scena che dà il titolo al quadro, lasciando il ruolo di protagonisti alle tre, monumentali, figure di destra. Fiumi di inchiostro sono stati scritti su questi tre alteri personaggi, e chissà quanti altri ne saranno versati; tuttavia guardandoli il pensiero non va alla loro presunta identità o al loro valore allegorico, rimane piuttosto sulla composizione, troppo rapito dalla sua eleganza mistica, così geometricamente accurata ma più naturale di una fotografia. Un sodalizio, questo, che pochi sono riusciti a far fiorire, pochissimi a farlo alla maniera di Piero. L’emozione è tanta, ma so bene che non è finita qui. Sono infatti pienamente consapevole di ciò che si trova alle mie spalle: è solo questione di girarsi, e io mi giro. Facendomi spazio tra una folla considerevole, arrivo finalmente all’altro capolavoro pierfrancescano custodito nella Galleria, la Madonna di Senigallia [fig. 6].
Fig.6
Distante circa 20 anni dalla Flagellazione, la tavola è una delle opere chiave della maturità dell’artista, che mostra l’assimilazione delle soluzioni fiamminghe nella grande cura riservata agli interni e ai vestiti dei personaggi. Ed è proprio un’opera dal sapore domestico, questa, rigorosa e solenne come tutte le madonne di Piero ma calda, dolce in ognuno dei gesti che la compongono, sospesa in un’abitazione che sembra un mondo a sé stante, se non fosse per il raggio di luce che entra dalla finestra nella stanza attigua, colpo di genio totale del pittore. Ed è proprio questa luce, metafora del mistero dell’Incarnazione, l’unico contatto con l’esterno presente nell’opera, l’unica cosa che riporta alla realtà lo spettatore, altrimenti prigioniero dell’eleganza e dell’equilibrio compositivo delle figure, le cui ombre e riflessi sono (guarda caso) modellate proprio da quei raggi. È un’opera sconcertante, suggestiva quanto la Flagellazione ma ancora più emozionante, e poterle ammirare una di fronte all’altra, nella stessa stanza, è un’esperienza che nessun altro museo può dare. Oltre a questo vanto ineguagliabile tuttavia la Galleria ha ancora, sin dalla stanza successiva, molto da offrire: vi si trovano subito pittori veneti di passaggio per la città come Lorenzo Lotto, Tiziano Vecellio e Giovanni Bellini, mentre più avanti si arriva al celebre studiolo di Federico da Montefeltro, spazio dove il duca si ritirava in lettura privata. Luogo singolarissimo, lo studiolo deve il suo fascino anche a un eccezionale stato di conservazione, fattore che gli ha consentito di rimanere l’unico ambiente del palazzo del tutto simile a come era nel Quattrocento. Appaiono infatti come nuove le tarsie lignee [fig. 7] poste a copertura delle pareti e rappresentanti armi, libri, animali e allegorie, mentre basta alzare la testa per vedere la serie degli Uomini illustri [fig. 8], formata da ventotto ritratti (di cui solo 14 originali) di grandi pensatori, eruditi, scrittori ed ecclesiastici, divisi nell’attribuzione tra lo spagnolo Pedro Berruguete e il fiammingo Giusto da Gand - anche se l’uso sapiente dello scorcio per favorire la visione dal basso ha fatto pensare anche a Melozzo da Forlì, maestro indiscusso di tale tecnica, la cui presenza a Urbino è documentata dal 1465 al 1475.
Fig.7 || Fig.8
In questo luogo di solitario raccoglimento intellettuale, che appare come la rappresentazione concreta di una di quelle «antiche corti degli antichi uomini» di cui parla Machiavelli nella celebre lettera al Vettori, si percepisce al meglio l’idea del Palazzo Ducale come trionfo dell’Umanesimo. Una sensazione, questa, che continua inevitabilmente nella stanza seguente, alla vista della celebre e discussa Città ideale [fig. 9], il cui mistero prospettico risulta ancora più suggestivo dopo aver visitato una città come Urbino, altrettanto precisa nella progettazione, non meno stimolante nel pensiero.
Fig.9
Segue un’altra opera iconica del Rinascimento urbinate, la Pala del Corpus Domini [fig. 10], costituita dalla predella realizzata da Paolo Uccello e da una grande tavola di Giusto da Gand, che si prese carico del compito dopo che era stato misteriosamente lasciato in sospeso dal pittore fiorentino. La pala è dunque, nel suo insieme, un’opera del tutto inconsueta: sia per la datazione, in quanto la predella è cronologicamente anteriore alla tavola principale, sia per lo stile, dato che mette a confronto le figure eleganti e le scene vivaci [fig. 11] di un innamorato della prospettiva come Paolo Uccello con la caricata gestualità e la cura per gli interni del fiammingo.
Fig.10 || Fig.11
Questa curiosa commistione rende eccezionalmente l’idea della pluralità degli stimoli culturali che dovevano convivere alla corte di Federico e chiude la sezione più caratteristica della Galleria, il cui primo piano ha tuttavia ancora altro da offrire. Chiude infatti il percorso rinascimentale una sezione dedicata ad artisti marchigiani e che culmina con un’opera del più illustre di loro, La Muta di Raffaello [fig. 12], ritratto di impostazione leonardesca ma tutto raffaellesco nei lineamenti e nell’abbigliamento, posto efficacemente in una stanza scura quasi quanto lo sfondo del dipinto, per risaltare la bianchezza delle carni.
Fig.12
Si sale dunque al secondo piano, inaugurato da un altro grande figlio di Urbino, Federico Barocci, le cui nove tele esposte documentano in maniera eccezionale il passaggio dal Manierismo al Barocco e il clima generale della Controriforma, filtrato nella sua opera tramite la gioia piuttosto che l’ansia che ci si potrebbe aspettare dal periodo. Vivaci e luminosi sono infatti i colori dell’urbinate, che nella bellissima Madonna di San Simone [fig. 13] dà un’originale re-interpretazione tardomanierista di uno schema compositivo di memoria correggiana, mentre nel San Francesco che riceve le stimmate si cimenta con un’ambientazione più cupa trovando risultati cromatici e compositivi sensazionali [fig. 14].
Fig.13 || Fig.14
Se la fama di Barocci è ben nota, più sorprendente per il visitatore dilettante risulta la qualità delle altre due tele collocate nella sala, entrambe di Simone Cantarini detto il Pesarese, che si muovono tra classicismo e caravaggismo con uno stile particolarmente espressivo [fig. 15].
Fig.15
Cantarini è solo il primo degli artisti seicenteschi esposti nella Galleria, che nel resto del percorso è incentrata sul barocco con tele dei maggiori maestri marchigiani dell’epoca (Guerrieri, Sassoferrato), ma anche di caravaggeschi girovaghi come Orazio Gentileschi. È una sezione densa, articolata in molte sale, e che dunque non sempre riesce a toccare le vette su cui si assesta tutto il percorso precedente. Comunque è proprio alla fine della Galleria che mi imbatto in un’ultima, piacevolissima sorpresa con le due stanze dedicate alla collezione Volponi, scrittore urbinate la cui notevole raccolta è stata donata al museo nel 2003. Se la prima sala conserva opere di vario genere, che vanno dal Medioevo pieno al Manierismo, la vera chicca è la seconda, quella seicentesca, nella quale sono esposti praticamente tutti i maggiori pittori italiani dell’epoca. Reni, Guercino, Giordano, Preti, Rosa, Orazio Gentileschi: tutti presenti, e con opere non certo trascurabili, tra le quali spicca il San Sebastiano del Guercino [fig. 16], il quale recupera un tema molto caro al “rivale” Guido Reni interpretandolo alla sua maniera.
Fig.16
Scesa dunque una lunga scala a chiocciola, si esce dalla Galleria e si torna nel cortile di Palazzo Ducale, dove finalmente si ha l’occasione di apprezzare a pieno, grazie alla consapevolezza data dalla visita, ciò che questo monumento ha rappresentato e tuttora rappresenta per la città: il suo motivo di orgoglio, il simbolo della sua grandezza. Con ciò non si vuole dire che Urbino sia solo il Palazzo Ducale - è anzi una cittadina incantevole, che irradia bellezza da ogni suo angolo - ma è proprio grazie a questo monumento che diventa qualcosa di più di uno di quei borghi pittoreschi ma in fin dei conti un po’ vani, elevandosi a luogo di eccellenza storica e culturale del tutto singolare. Prima l’ho definita “conturbante”, e infatti Urbino, nonostante le piccole dimensioni e il clima disteso che si respira nelle persone, non è una città che trasmette leggerezza - almeno per chi scrive. Ricorda bensì costantemente, ogni volta che lascia intravedere le torri del suo Palazzo, come la grandezza, anche quella degli altri, richieda dedizione per essere vissuta. E questo è forse il suo più grande pregio.
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