Articolo di Andrea Lecchi
Studiare le arti del passato significa misurarsi con delle “presenze” e, inevitabilmente, con delle “assenze”; in altri termini, significa fare i conti con opere che, più o meno integre, esistono ancora e con opere che, per le ragioni più varie, non esistono più. Ne era pienamente consapevole Julius von Schlosser: lo studioso, intento a mappare l’arte profana (cortese, precisamente) del tardo Medioevo, uno dei campi della storia artistica occidentale più falcidiati dallo scorrere edace del tempo, si rese conto della necessità di «raccogliere insieme faticosamente i resti di questa antica magnificenza da musei e biblioteche e dalle mediocri descrizioni degli scrittori e degli inventari, per ottenere dai frammenti un quadro che, nonostante i suoi impalliditi colori, fa presentire ancor sempre la passata grandezza». Tra i resti e i frammenti di cui scrisse lo storico dell’arte viennese rientrano non soltanto tavole dipinte, cicli di affreschi, codici miniati, sculture, ma anche – oggetti certo più inusitati, almeno agli occhi di un pubblico generalista – arazzi, cassettine intagliate in avorio, pettini anch’essi eburnei e – aggiungerei – carte da gioco, come i tarocchi visconteo-sforzeschi, di cui oggi rimangono centottantanove esemplari appartenenti in origine a tre mazzi distinti che, a seguito di vicende collezionistiche avventurose, si sono smembrati e si conservano ora tra Bergamo, Milano, Torino, New Haven e New York.
Episodio figurativo tra i più singolari di quell’“arte di corte” che da Schlosser (1895) ai nostri giorni ha ricevuto un’attenzione sempre maggiore negli studi, le carte da tarocco, protagoniste di ben due mostre monografiche tenutesi a Brera nel 1999 e nel 2013, sono difficilmente categorizzabili all’interno del sistema delle arti: si tratta, infatti, di opere che, per la loro stessa costituzione materiale, si situano in una terra di mezzo tra la pittura, la miniatura e le cosiddette arti minori. Per cominciare, guardiamone tre, una per ciascuno dei mazzi che stiamo considerando (il mazzo Brambilla, il mazzo Visconti di Modrone e il mazzo Colleoni-Baglioni, così chiamati dal nome dei loro storici proprietari) [figg. 1-3].
Fig. 1: Bonifacio Bembo, Il folle (dal mazzo Colleoni-Baglioni), c. 1445 – c. 1460, 17,6 x 8,7 cm. New York, Pierpont Morgan Library || Fig. 2: Bonifacio Bembo, La ruota della Fortuna (dal mazzo Brambilla), c. 1444 – c. 1447, 17,8 x 8,9 cm. Milano, Pinacoteca di Brera || Fig. 3: Bonifacio Bembo, L’Amore (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 x 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library.
Le carte, su cui campeggiano figure dipinte a tempera, sono fatte di fogli di cartoncino pressati e poi ricoperti da un’ingessatura, sopra cui è stato steso il bolo armeno ed è stata applicata la foglia d’oro (in alcuni casi, la foglia d’argento), successivamente punzonata a formare un fondo operato, comune a molte miniature lombarde coeve.
L’attribuzione ha diviso e divide gli studiosi: alcuni, come Pietro Toesca, hanno assegnato, per via stilistica, queste tre suites, realizzate tra gli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta del Quattrocento, alla bottega degli Zavattari, una delle più attive nella Lombardia tardogotica; altri alla bottega cremonese dei Bembo, e segnatamente al suo più celebre esponente, documentato tra il 1444 e il 1477: Bonifacio. Quest’ultima proposta, avanzata da Roberto Longhi, si è abbastanza stabilizzata nella bibliografia, sebbene non manchino né voci di dissenso né nuove ipotesi, di cui, per ragioni di spazio, non si potrà dare conto.
I tre pezzi che ho scelto di illustrare raffigurano la Ruota della fortuna, una Scena di fidanzamento (o, più semplicemente, L’Amore) e il Folle (così viene chiamato nei tarocchi l’uomo dagli abiti laceri, col gozzo, con una clava e con delle penne in testa; uno schema iconografico, questo, del tutto prossimo a quello della Stultitia, magistralmente esemplata da un affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni [fig. 4]).
Fig. 4: Giotto, Stultitia, 1306. Padova, Cappella degli Scrovegni.
Altre carte, dal mazzo Visconti di Modrone, mostrano soggetti sacri assai ricorrenti nella cultura figurativa medievale, come le tre Virtù teologali: per brevità, propongo la sola Fede [fig. 5].
Fig. 5: Bonifacio Bembo, La Fede (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 x 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library.
A comporre ciascuna suite non sono, però, solamente carte di tema secolare e sacro: infatti, oltre agli arcani maggiori, o trionfi, di cui ogni mazzo di tarocchi antichi e moderni dispone in numero di ventidue, esistono altre cinquantasei carte, gli arcani minori, quattordici per ogni seme (bastoni, coppe, denari, spade). Ecco, quindi, pararsi davanti ai nostri occhi, a mo’ di esempio, la Regina e il Due di denari, la Dama di spade e il Sette di coppe [figg. 6-9].
Fig. 6: Bonifacio Bembo, Due di denari (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 × 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library || Fig. 7: Bonifacio Bembo, Due di denari (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 × 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library || Fig. 8: Bonifacio Bembo, Dama di spade (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 x 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library || Fig. 9: Bonifacio Bembo, Sette di bastoni (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 x 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library.
A guardarle attentamente, queste opere forniscono, a chi le sappia leggere, indizi ulteriori per la soluzione della loro identità: per esempio, il sole raggiato impresso sul denaro (oltre che sul fondo di numerose altre carte), la veste trapunta di colombe con un cartiglio entro una fittissima razzatura, il motto francesizzante «a bon droyt» («per giusto diritto») sulla veste della minuta figura che accompagna la regina di denari, il biscione blu e il fazolo (un anello fatto di tessuto con due svolazzi). Questi e altri simboli, pervasivamente presenti, appartengono al nutrito repertorio araldico dei Visconti, i signori forse più potenti dell’Italia tardomedievale, diventati duchi, per concessione dell’imperatore Venceslao IV di Boemia, solo nel 1395 (si erano imposti a Milano dal 1277).
Si deve, in particolare, alla magnificentia dell’ultimo Visconti, Filippo Maria, che resse il ducato tra il 1412 al 1447, la commissione dei mazzi Brambilla e Visconti di Modrone, mentre il Colleoni-Baglioni fu presumibilmente commissionato da Francesco Sforza, al potere dal 1450 al 1466. Che, infatti, Filippo Maria fosse appassionato ai giochi di carte fin dall’infanzia è noto da un passo della Vita a lui dedicata dall’umanista Pier Candido Decembrio, secondo cui il figlio di Gian Galeazzo, da bambino, si dilettava «plerumque eo ludi genere, qui ex imaginibus depictis fit» («soprattutto in quel genere di gioco che si fa con le figure dipinte»).
È certo, pertanto, che la funzione di questi oggetti, almeno nel tardo Medioevo, non fosse quella di essere contemplati, magari chiusi in una teca di vetro nel castello di Porta Giovia (l’attuale Castello Sforzesco), né quella di predire il futuro, come avviene oggi. Piuttosto, essi erano, lo si è detto, un gioco per la corte, i cui membri forse si rispecchiavano in quei fanti e in quelle dame, in quei re e in quelle regine affogati nell’oro e vestiti à la page. Che proprio queste fossero le suites usate da Filippo Maria o no, un fatto è sicuro: nella Milano del gotico morente si giocava a carte, come proverebbe, tra l’altro, un affresco coevo del Palazzo Borromeo a Milano [fig. 10].
Fig. 10: Maestro dei Giochi Borromeo, Il gioco dei tarocchi, c. 1455. Milano, Palazzo Borromeo, Stanza dei Giochi.
I tarocchi come oggetti artistici e ludici, dunque. Ma non solo: da alcune cronache ducali, infatti, si apprende che nel 1452 Francesco Sforza richiese al tesoriere di Cremona, città nota per la produzione di questi peculiarissimi manufatti, quanto segue: «Perché el magnifico signore Sigismondo [Sigismondo Pandolfo Malatesta] ha rechesto ad la illustrissima madonna Bianca, nostra consorte, uno paro de carte da triumpho per zugare, ti commettimo et volemo che subito ne debii fare fare uno paro de belle quanto più serrà possibile, pincte et ordinate cum le arme ducale et a l’insegne nostre et mandaràile subito como seranno facte». I tarocchi, quindi, come dono diplomatico tra signori. Come, in definitiva, oggetti “politici”. Ed è significativa la puntualizzazione «cum le arme ducale et a l’insegne nostre»: che quella «lussuosa follia araldica» (così Roberto Longhi), dispiegata su ogni singola carta dei nostri mazzi, servisse anche a fare avvertire a chi avrebbe ricevuto quel «paro di carte da triumpho» la viva presenza della signoria milanese, rinata, in veste sforzesca, dopo la caduta dei Visconti nel 1447?
Infine, gli studiosi si sono chiesti se, e in quale misura, la temperie culturale in cui nacquero questi bizzarri oggetti possa aiutarci a capirli meglio. Il problema della relazione tra cultura figurativa e cultura non figurativa, nel caso dei tarocchi, si è concentrato attorno a due poli.
Il primo riguarda i possibili legami con la letteratura, nella fattispecie con Francesco Petrarca, che a Milano soggiornò tra il 1353 e il 1361. Proprio nei territori del ducato, il poeta aretino proseguì la stesura dei Trionfi, cominciati nel 1350. La genesi dei triumphi figurati fu sollecitata forse da quest’opera poetica? E ancora: vi sono legami cogenti tra il testo petrarchesco e le carte da gioco di cui stiamo parlando? A cercare rapporti di corrispondenza biunivoca tra parole e immagini, si rimarrà delusi. Tuttavia, alcune affinità, sia pure lasche, si possono riscontrare: per fare un solo esempio, alcuni protagonisti dei sei Trionfi per verba (Amore, Morte, Tempo) compaiono anche nei mazzi [figg. 11-12].
Fig. 11: Bonifacio Bembo, La Morte (dal mazzo Visconti di Modrone), c. 1444 – c. 1447, 18,9 x 9 cm. New Haven, Yale University, The Beinecke Rare Book and Manuscript Library || Fig. 12: Bonifacio Bembo, Il Tempo (dal mazzo Colleoni-Baglioni), c. 1455 – c. 1460, 17,6 x 8,7 cm. New York, Pierpont Morgan Library.
Insomma, che i Trionfi potessero costituire fonte di ispirazione per un prodotto artistico non è cosa da escludere anche alla luce della loro straordinaria fortuna visiva nonché, più in generale, dell’enorme fortuna del Petrarca volgare nell’Italia quattrocentesca.
Il secondo possibile addentellato con il mondo culturale del primo Quattrocento è stato individuato dall’autrice del primo impegnato studio storico-artistico sulle tarot cards viscontee (1966), Gertrude Moakley, la quale ha sostenuto che «the triumphs of our cards are visual representations of the popular triumphs of the fifteenth century». Sulla base delle conoscenze storiche odierne, l’ipotesi allettante della studiosa americana, che compì queste ricerche su incoraggiamento di Erwin Panofsky, risulta forse troppo ardita: infatti, le processioni trionfali, celebri per tutto il Rinascimento europeo, sono, per il momento, almeno per la zona corrispondente all’attuale Lombardia, documentate troppo tardi rispetto agli anni Quaranta e Cinquanta, quando, cioè, furono realizzati i nostri tarocchi.
Prima di concludere, un cenno alle sorti post-quattrocentesche di queste opere d’arte, che nei secoli sono giunte a calamitare l’attenzione di molti: dei collezionisti non meno che degli scrittori. A questo proposito, come non ricordare la fascinazione che le carte visconteo-sforzesche esercitarono su Italo Calvino, che ne prese ispirazione per scrivere Il castello dei destini incrociati (1969)? Nelle pagine di questo romanzo, com’è noto, l’autore inventò alcune fiabe cavalleresche, combinando in vari modi le carte dei tre mazzi, che – lo ha ravvisato Alberto Arbasino – funsero da «perfetti frammenti mobili da riassemblare in percorsi narrativi infiniti».
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