Mentre si ingiallivano i contorni delle tende fra uno stacco e l’altro, davanti a porte rosse incastonate con ceramiche di forme indefinite – ancora chiuse – Ioanne strisciava i piedi completamente nudo, lungo le piastrelle dell’immenso corridoio. Destro, sinistro: galoppava dal marmo primo al marmo secondo, meno consumato e più freddo. La luce fioca delle giornate di sole invernali giocava a illuminargli solo la schiena. Affiancate alle pareti, quattro sedie distanti venti metri l’una dall’altra, rivestite di un velluto fiorito color amamelide, dove angurie e fiori apparivano da lontano così poco visibili da sembrare chiazze di sangue. Le braccia pesanti rivolte ai muri, la mano destra teneva fermo il dito medio dell’altra mano e lo stritolava ad intervalli costanti. Le cosce violacee sfregavano tra loro, quando si incontravano, anche loro fredde, per minuti di calore sufficienti ogni volta che si fermavano davanti gli immensi quadri posti sulle pareti verde inglese. «Questo mi è sempre piaciuto un pò meno degli altri» disse a gran voce, susseguito da un’eco rombante – «Eppure non l’ho mai fatto buttare, né nostra madre lo prese in rassegna. Mi piace, ora! Ah, quanto mi intriga, quanto mi turba! Che fatto strano, non l’ho mai amato, ed è sempre rimasto qui fermo. Ed ora mi è sempre più caro ogni suo dettaglio».
Si avvicinò un poco per osservarne i colori e ne trasse una scena sconfortante. L’occhio sinistro iniziò a tremare per lo sforzo. Si afferrò la palpebra e la guancia con l’indice e il pollice della mano destra per continuare a studiare il disegno, per restare attento. Dal basso verso l’alto seguì tutte le calcature di un pennello ormai privo di setole, linee incastrate fra altre linee da una mano che dipinge un ricordo pesante. E si contorse sempre più, piegato in due, con le cosce aperte e il membro penzolante all’aria, mentre con le punte dei piedi barcollava su e giù.
Fra il paesaggio campagnolo e le case di crema illustrate sulla destra della piccola tela appariva un cavallo su ricurvo su sé stesso, che di cavallo aveva ben poco: ormai solo denti e coda. Ioanne ricordò il puledro che da bambino gli morse il fianco mentre cercava di montarlo, e rise di gusto. Le ossa dell’animale pendevano sulla testiera del suo letto come trofeo bellico, un vanto che lo lusingava davanti ad ogni ospite sorpreso alla vista di tali oscenità nel tentativo di cercare il bagno. Ogni qual volta il giovane tornava fra le mura familiari in preda al nervosismo, le osservava con acuta malizia, e con occhi stretti cantilenava sottovoce «chi morde chi morde chi morde chi».
«Quest’essere, una via di mezzo fra l’inumano e l’animale, un errore; una belva di aspetto feroce è stata accostata a sì tanta bellezza! Che male, che profanità, essere davanti a tanta divina gioia, a un sole tanto puro, rovinato da una così semplice sciocchezza. Forse dovrei strapparla via e ricucire al suo posto uno straccio di tela che risolva il mio sconforto». E così fece, mai vestendosi, come se altro non ci fosse da compiere in una giornata. Prese la tela e ne ritagliò con una piccola lama l’immagine fastidiosa, ricucì come meglio gli venne la prima pezza trovata nello scantinato della villa e lo appese al suo posto. Soddisfatto; da ultimo, capace di respirare a intervalli felici. Il peggio era passato e il disastro sgualcito sul pavimento. Come sarebbe stata fiera, sua madre.
Mentre si congratulava solo, e applaudiva il lavoro compiuto, passò per il corridoio una donna minuta, indossava umili vesti bianche e un grembiule glicine ingrigito da anni di polvere. Si fermò senza esitare a pochi passi da lui e con una calma invincibile disse: «Ioanne, mio piccolo signore, – seppure avesse ormai trenta e uno anni – forse è tempo di andare a riposare, non crede? Sono ormai le cinque, e lei non è mai di buon umore dopo le quattro. Sua madre le manda saluti cordiali, non può venirle a donare il bacio serale». E gli porse la mano giovane, consumata da uno sforzo costante.
«Oh Lucia, ma io non ho sonno – disse Ioanne a gran voce, sempre col corpo rivolto alla tela, mentre guardava con fare sospetto l’angolo sinistro – e non vedi che sono occupato? Sono impiegato e finalmente felice, non mi parlare più oggi. Stasera dormirò sveglio!».
La balia, con fare scostante e ancora poco preoccupato, gli rivolse uno sguardo fugace, poi guardò la tela rattoppata e fece per andarsene, congedandosi lesta. «Non trovi – ma forse non te ne sei accorta – avvicinati, guarda! Ho finalmente risolto il più grande problema, sicuramente quello che ci affliggeva tutti da anni. Non sentivi, in cuor tuo, una voce sempre più forte che chiede perdono? Io ogni sera la ascolto».
E la balia pronta ad intervenire sprecò solo un fiato ma non veloce abbastanza, «era qui, davanti a tutti e non ce ne siamo mai accorti. Io! Io! Ho risolto tutto. Scrivi una lettera ai miei cari, ora possono tornare tranquilli, nelle loro stanze, e continuare a giocare a biglie. Forza! Veloce! Non voglio perdere altro tempo». Ioanne si girò per guardarla, ma la vide solo indietreggiare lentamente, con occhio smarrito. Pensava, forse, si fosse eretta dietro di lui una perfida ombra, e le chiedeva cosa stesse fuggendo, dove stesse andando, e quando fece per seguirla, lei iniziò a correre veloce via, lontana, verso l’unica porta socchiusa.