
Il duol che tutti gli altri passa
Mentre si ingiallivano i contorni delle tende fra uno stacco e l’altro, davanti a porte rosse incastonate con ceramiche di forme indefinite – ancora chiuse – Ioanne strisciava i piedi completamente nudo, lungo le piastrelle dell’immenso corridoio. Destro, sinistro: galoppava dal marmo primo al marmo secondo, meno consumato e più freddo. La luce fioca delle giornate di sole invernali giocava a illuminargli solo la schiena. Affiancate alle pareti, quattro sedie distanti venti metri l’una dall’altra, rivestite di un velluto fiorito color amamelide, dove angurie e fiori apparivano da lontano così poco visibili da sembrare chiazze di sangue. Le braccia pesanti rivolte ai muri, la mano destra teneva fermo il dito medio dell’altra mano e lo stritolava ad intervalli costanti. Le cosce violacee sfregavano tra loro, quando si incontravano, anche loro fredde, per minuti di calore sufficienti ogni volta che si fermavano davanti gli immensi quadri posti sulle pareti verde inglese. «Questo mi è sempre piaciuto un pò meno degli altri» disse a gran voce, susseguito da un’eco rombante – «Eppure non l’ho mai fatto buttare, né nostra madre lo prese in rassegna. Mi piace, ora! Ah, quanto mi intriga, quanto mi turba! Che fatto strano, non l’ho mai amato, ed è sempre rimasto qui fermo. Ed ora mi è sempre più caro ogni suo dettaglio».
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