Racconto di T.T.
Ogni domenica mattina mentre mio padre stava in cantina ad armeggiare con gli strumenti da lavoro che ogni padre deve possedere e utilizzare, mia madre, pochi metri sopra di lui, si dilettava nell’attività casalinga per eccellenza, la cucina. La casa rimbombava di suoni e rumori; ad ogni trillo di trapano rispondeva una padella sbattuta, ad ogni chiodo piantato lo sfrigolio dei fornelli. Sembrava una battaglia, una guerra, o almeno per me lo era dato che nessuno dei due contendenti pareva rendersi conto del conflitto. Papà in un certo senso aveva la meglio, sia per l’amplificazione che i suoni dei suoi strumenti raggiungeva, sia per la congenita sordità all’orecchio sinistro che gli assicurava una modesta tranquillità sotto il tetto coniugale.
Ogni domenica mattina assistevo al conflitto sonoro in camera mia, con le orecchie dritte come antenne. Aspettavo la voce di mamma, un richiamo, qualcosa che mi trascinasse fuori dalla mia alcova fanciullesca. La raggiungevo in cucina e mi univo allo scontro dandole manforte. Estraevo da un barcollante mobiletto in compensato tutti i compact disc della casa, probabilmente una dozzina, non di più, selezionavo il disco della mattinata e mi lanciavo in un attentissimo ascolto di modo da distrarmi dal cacofonico party di Black & Decker, a cui peraltro non ero stato invitato.
I dischi erano appunto pochi e fondamentalmente si riducevano a un’unica categoria: il cantautorato italiano. Contenevano suoni acustici, fumosi, contorni instabili a testi impegnati, allusivi, svogliati e virtuosi.
Iniziava così quello che ricordo come un catechismo familiare piccolo borghese, un importante momento di istruzione in cui venivo iniziato all’etica e all’estetica dell’immaginario materno. La musica partiva e mamma a gran voce stonava le parole di Guccini, Gaber, De André e Fossati. Erano salmi recitati a memoria, ripetuti allo sfinimento; veicolavano qualcosa capace di illuminare di senso le piastrelle scaldate dal sole su cui stavo sdraiato. Cantavano le gesta di eroi, santi, martiri. Una vaga e intensa spiritualità riempiva la stanza e innalzava quella modesta casa di paese in un vortice di eventi più grandi di noi, una dimensione in cui ci appiattivamo a testimoni, fedeli in preghiera; di colpo tutto quadrava, i fili d’erba in giardino avevano un motivo di essere lì, il corso del fiume era stabilito e fondato.
Deve essere stato in uno di quei momenti che avvenne il mio primo incontro con uno dei principali dictum del sistema. Era contenuto in una celebre composizione di Fabrizio De André, Via del Campo, dedicata a una via genovese abitata da ladri e puttane. Il brano si concludeva con due versi che volevano costituire l’insegnamento morale della novella:
“Dai diamanti non nasce niente
Dal letame nascono i fior”
La canzone terminava e iniziava l’esegesi del testo. Mamma sciorinava esemplificazioni buoniste del dictum mentre sbucciava le zucchine: “gli ultimi saranno i primi”, “i fiori nascono da ciò che ripudiamo”, “i ricchi e i potenti sono tristi e vuoti” e via dicendo. Da quelle poche parole riusciva a trarre ogni rassicurazione necessaria a non interrompere mai quello sguardo d’amore rivolto nei miei confronti, a continuare a tagliuzzare accuratamente le zucchine prima di buttarle in pentola, a tollerare il frastuono che proveniva dalla cantina.
Il messaggio era chiaro, semplice e definito, tuttavia non passò. Si insinuò in quella parentesi pedagogica il lato in ombra di ogni insegnamento: il fraintendimento. Ogni insegnante sa che il suo onesto e volenteroso lavoro viene costantemente frustrato dal fraintendimento degli alunni. Vi sono docenti che tentano di evirarlo chirurgicamente, altri lo tollerano e lo accettano come parte del processo di trasmissione, altri ancora lo abbracciano anarchicamente sperando che questo abbia la meglio. Non esiste una posizione adeguata in merito, comunque vadano le cose l’incomprensione parassiterà ogni oggetto, ogni contenuto è potenzialmente distorcibile di modo da forgiarne qualcosa di radicalmente nuovo, alle volte spaventoso. L’incomprensione è la linfa che abita il linguaggio e la cultura, ciò che permette la produzione del nuovo e che scompagina ogni quadratura del cerchio. Fraintendere una carezza e trasformarla in un gesto d’odio, ribaltare un abbandono in una liberazione, significa riscrivere l’ordine dei fatti, imporre un destino inedito al presente in cui viviamo, violentemente battere i piedi contro ogni determinismo.
In questo caso il fraintendimento fu semplice. Si impose un significato altro nascosto in quei versi, un cancro che li deformava e li piegava a se stesso. Venne tracciata una linea causale che partiva dal letame e giungeva fino ai diamanti; fiori e niente furono indissolubilmente associati. Da quel momento in poi dal letame nascevano i diamanti: dalla merda, dal putridume, dall’abietto, poteva essere scolpita la forza geometrica e lucente di un cristallo fondamentalmente perfetto. Al contrario il ridente e allegro mondo vegetale era sterile, incapace di produrre qualcosa di superiore al nulla, andava ignorato, evitato. Bastò un attimo e del testo originale restò ben poco. In me si strutturò un impulso, una pressione, una spinta a cercare e raccogliere tutto ciò che avesse la forma e il destino dell’escremento. Solo a partire da questo avrei potuto un giorno partecipare alla preziosità fraintesa del diamante, tornare al calore di quella domenica, brillare nel sole dei rinnegati.
Ci demmo appuntamento in stazione. Il mio treno era partito con un ritardo di circa venti minuti, cosa che mi generava un particolare fastidio, un misto di senso di colpa e impotenza. Non potevo tardare, avrei dovuto spaccare l’orologio, ne andava delle sorti del mondo. Avevo ingannato l’irrequietezza perdendomi nei monotoni paesaggi padani che riempivano il finestrino, ma ormai il sole era calato e l’illuminazione artificiale del vagone aveva preso il sopravvento. Ora mi ritrovavo faccia a faccia con il riflesso del mio corpo, una sagoma scomposta riempita dalle veloci ombre che mi scorrevano davanti. Non mi riconoscevo, eppure dovevo apparire esattamente così. I pochi compagni di viaggio erano scesi alle fermate precedenti, tra questi una signora di mezza età piuttosto esuberante, evidentemente in cerca di chiacchiere e simpatia. Avevo risposto ad ogni suo tentativo di interazione con un sorriso cortese e uno sguardo rassicurante. Non mi andava di offrirle di più. In quel momento ero vuoto, incosciente, solo un corpo diretto verso un obiettivo; oltre ciò non c’era nulla, ero riducibile a un contorno disegnato sul finestrino.
Approdammo in stazione con un ritardo totale di quaranta minuti. A. era ferma sul binario ad aspettarmi. Mi venne incontro a passo svelto. Prima che me ne accorgessi le sue braccia mi strinsero i fianchi, poi risalirono passando per l’addome, si insinuarono sotto i vestiti, mi scavarono il petto. Sembrava volesse constatare che fossi davvero lì, cercava le stigmate che mi identificavano. Il nodo che da mesi univa la cervicale allo sterno si sciolse e ogni forma di dolore mi abbandonò per qualche istante. In risposta la strinsi a me con forza cercando il suo sguardo. Notai le guance scavate e le ombre scure che le correvano lungo gli occhi; i suoi polsi si erano fatti ossuti, la sentii spossata, debole. Mi accorsi che la stavo sorreggendo. Nel frattempo era passata a esplorare il mio viso con la punta delle dita. “Sono bella M.?”, chiese. Un sorriso ansiogeno riempì il mio volto; anche lei cercava diamanti. “Sì A.”. Se la felicità è un sentimento di disperazione, A. in quel momento era felice. Ci baciammo.
Scivolammo rapidamente in strada tenendoci stretti, camminando all’unisono. La nebbia si infrangeva contro il feltro dei nostri cappotti e nascondeva i volti condannati dei passanti, che comunque non guardavamo. Avevamo occhi solo l’uno per l’altro. Ci scrutavamo senza perdere di vista il percorso, quando possibile bruciavamo i semafori.
Milano puzzava. Un tanfo intenso, tuttavia sopportabile. L’olezzo milanese è qualcosa di speciale, poche città sanno male odorare in maniera così artificiale, delicata e distinta. È un puzzo di sottofondo, aggiunto successivamente, una volta che la città era già bella che finita, come se si fossero accorti solo in seguito che una grande città deve possedere una simile caratteristica per essere tale. Metropoli come Roma, Parigi o Londra godono invece di un puzzo congenito, una conseguenza della propria organizzazione, delle nefandezze nate e cresciute in ognuno dei loro anfratti. Milano è sintetica, strutturalmente pulita; il suo tanfo non è da meno.
L’appartamento di A. era in un palazzo di bell’aspetto in Porta Garibaldi. L’ascensore era guasto e dovemmo affrontare l’intera tromba delle scale per giungere all’ultimo piano. Corremmo e ci inseguimmo, trascinandoci vicendevolmente fino alla porta. Si trattava di un monolocale recentemente ristrutturato, probabilmente pensato per fini affittuari. A. non ci viveva, era una delle tante proprietà di famiglia. Ogni due o tre mesi rimbalzava tra queste case, abbandonando il precedente rifugio con scuse sempre meno credibili. A muoverla era qualcosa di ben più forte dei fastidi contingenti che ogni volta lamentava, era costretta al nomadismo da una tensione interiore, la stessa che muoveva le sue braccia in una costante esplorazione del mio corpo. Cambiava casa e città più frequentemente dei cambi stagionali, era un’abitudine consolidata. Non era però un desiderio di novità a guidarla; i luoghi erano molti eppure sempre gli stessi: abitava centri città facoltosi da cui usciva raramente. Generalmente si trattava di piccoli appartamenti anonimi e ben tenuti, percorreva le medesime vie, cercava le solite attrazioni, gli stessi negozi. Il suo stile di vita si manteneva invariato. Rifuggiva la novità quanto temeva la stabilità.
Entrammo in casa trafelati, sfilandoci il soprabito. Rimasi sull’uscio e guardai A. mettersi in mostra e appoggiarsi al tavolo da pranzo. Fece una piroetta fingendo di non essere osservata, poi mi lanciò uno sguardo che voleva apparire indifferente. Era visibilmente deperita. Portava un nuovo vestito piuttosto elegante, in aperto contrasto con le scarpe – le stesse di sempre – che invece erano quasi completamente distrutte. La pelle era sgualcita, attraversata da graffi e fenditure; dovevano essere state portate con incuria per almeno cinque o sei anni. I capelli corvini erano stati raccolti per mascherare lo sporco, ma la frangia eccessivamente lucente e grassa tradiva il segreto. Mi avvicinai e gliela spettinai, poi le baciai la fronte. Emanava un fascino magnetico e ambiguo; l’iride scuro era calmo come una pozza di petrolio, pareva di potercisi annegare dentro.
Le misi una mano sotto la gonna. Le apparve un’espressione volutamente sorpresa sul volto, desiderava essere presa. Pur continuando a guardarla negli occhi la alzai bruscamente sul tavolo, le strappai le calze all’altezza dell’inguine e le entrai dentro con forza. Scopammo silenziosamente, mossi da una dolcezza impacciata. Quando venne chiuse gli occhi e aprì leggermente la bocca, mi sentii stretto in un abbraccio ed eiaculai. Restammo in quella posizione per alcuni minuti, appoggiati l’uno all’altro in completo silenzio. Le carezze e gli abbracci erano mediati dai vestiti che ci eravamo dimenticati di togliere. Avevo già osservato che la nudità integrale raramente occorreva nei nostri incontri: lino cotone e poliestere regalavano sensazioni tattili essenziali alla nostra intimità, si proponevano come uno sviluppo tissurale della nostra pelle. Non eravamo mai completamente vestiti e soprattutto mai nudi; un infinito movimento di svestizione che non poteva risolversi. Era un fenomeno che invadeva ogni aspetto della nostra relazione: le parole che andavano nella direzione dell’uno o dell’altro ubbidivano a questa stessa logica; le cose erano dette e taciute allo stesso tempo. Ad ogni occasione quattro sillabe, un aggettivo incauto o un tono eccessivamente carico potevano trasformarsi in un pericoloso denudamento, lame affilate dirette verso il telo che ci univa e divideva, al quale restavamo attaccati con tutta la nostra forza.
Decidemmo di uscire a bere. Mentre A. si sistemava frettolosamente il trucco osservai la stanza. La cucina era intonsa, una pellicola adesiva trasparente ricopriva frigorifero e forno. Nessuna traccia di pentole e stoviglie. Sulla parete adiacente un armadio spropositatamente grande occupava buona parte della superficie calpestabile dell’appartamento. Le ante erano spalancate, un cordone di panni cadeva dai ripiani e si ricongiungeva a una valigia aperta, malamente gettata a terra. A. non aveva ancora avuto modo di disfare i bagagli; nonostante ciò aveva appeso sopra il letto la stampa di Vittorio Giardino che si portava ovunque. Ricordo di una notte passata assieme a Ferrara: non aveva fatto in tempo a guardare la stanza d’hotel in cui avremmo alloggiato che già aveva sfoderato da una borsa di tela quel dannato disegno, appiccicandolo poi alla meglio alla parete. Raffigurava una ragazzina in camicia da notte, con il culo per aria, aggrappata a un letto volante, intorno a lei una città notturna. I margini erano pieni di strappi e parzialmente scoloriti dalle ingenti quantità di nastro adesivo utilizzate ad ogni trasloco. I ripiegamenti avevano creato dei solchi evidenti che mangiavano il disegno lacerandolo in quattro parti. Quando eravamo lontani spesso immaginavo A. addormentata ai piedi di Little Ego (era il nome della giovane disegnata), immersa in sogni fanciulleschi e sereni che mi sarebbero sempre stati inaccessibili.
Mi sedetti sul letto e spiai A. attraverso la porta socchiusa del bagno. Mi dava la schiena specchiandosi. La sentivo parlare sottovoce tra sé e sé, intenta ad armeggiare con matite e ombretti di varia sorta. Non era brava col trucco; ne metteva poco eppure risultava sempre troppo evidente e disomogeneo. Si trattava di una maschera, una maschera da donna. Una maschera da donna per apparire ciò che effettivamente era: una donna. Una donna travestita da donna: una donna. Improvvisamente le cascò qualcosa dalle mani, si chinò a raccoglierlo e mi ritrovai di fronte al mio riflesso. Questa volta non si trattava solo di una sagoma: ero paonazzo, gonfio, gli occhi chiari inquinati da un contorno rosso sangue. La camicia era stropicciata, sbottonata; i capelli spettinati davano aria alle profonde insenature che mi aprivano le tempie. Ora che la mia figura appariva riempita da un contenuto il contorno risultava spezzato. Subivo una caotica dispersione, andavo in ogni direzione e al contempo in nessuna. Ero fatto di pezzi sparsi, ognuno dei quali vittima di un perverso deterioramento. In quel momento di terrore fece capolino l’idea di una legge mortifera volta alla dissoluzione del cosmo. Era lì da sempre, prudente e silenziosa, ma soltanto ora avevo avuto l’occasione di incontrarla. La legge imponeva a tutte le cose di distanziarsi le une dalle altre, chiudersi in un rigido autismo degenerativo, impazzire e deformarsi riflettendosi in sé stesse. Tutto si sarebbe deteriorato freneticamente lasciando spazio al bianco e silenzioso vuoto, luce inerte. Capii come dovevano andare le cose. A. si alzò con uno scatto, aveva recuperato l’ombretto caduto. Tornai in me. “Ti aspetto sotto”, annunciai. Presi le mie cose e mi catapultai fuori dalla porta.
Feci pressione per ingerire del cibo, ero affamato. La convinsi a fermarci in un Kebab su via della Moscova. Era tardi e gli avventori erano ben pochi. Ordinai una classica piadina completa raccomandandomi di cuocere bene la carne. A. invece si concesse una porzione di patatine che non finì. Mi guardava con un’espressione che appariva divertita, ma che mal celava un aristocratico disgusto. Sedeva di fronte a me, con la sedia lontana dal tavolo e le gambe accavallate. In mano teneva una Peroni da sessantasei che sorseggiava lentamente, quasi a non volerla finire. Puntava il mento all’insù, guardandomi dall’alto.
“Ti piace eh?”, disse con tono scherzosamente derisorio riferendosi all’ammasso unto di carne e verdure che tenevo in mano. Guardai il kebab e mi accorsi che l’insalata doveva avere almeno due giorni. Noncurante addentai un morso: un disgustoso rivolo biancastro iniziò a corrermi tra le labbra fino a raggiungere il mento. Mi pulii con un tovagliolo di carta e la guardai con un sorriso beffardo. “Buono è buono”, ribattei. Mi rispose con un vocalizzo dialettale che tradiva le sue origini meridionali, un sospiro allegro e pieno di leggerezza. Sorrisi.
“Come fai a mangiare così tanto? Tu non mangi, ti abbuffi. È diverso. Diventerai un pallone.”
Organizzai una giustificazione: “È che ho sempre fame, soprattutto la notte. Esco e ho fame, cammino e ho fame. Ho bisogno di usare la bocca, devo mangiare.”
La risposta non la soddisfò.
“Ci pensi?”
“A che cosa?”
“Al fatto che siamo io e te adesso.”
“Non ci penso ma lo so.”
“Se lo sai è perché ci pensi.”
“Oppure lo so e non serve che ci pensi.”
Strinse le palpebre facendomi intendere che non mi credeva, poi prese il telefono e si alzò in piedi. “Devo fare una chiamata” disse, e uscì sul marciapiede.
Restai solo. Di fronte a me, su un muro grigio topo, tre quadretti spogli incorniciavano anonime fotografie raffiguranti paesaggi egiziani, in ironico contrasto con le voci dei kebabbari che invece articolavano un turco incontaminato.
Nella sala erano rimaste un paio di ragazze. Il loro tavolo era imbastito in maniera disordinata da filtri, trucioli di tabacco e carta appallottolata; dovevano essere lì da molto tempo. La conversazione sembrava straziante. La più minuta parlava con voce insicura e flebile, guardava insistentemente il tavolo tenendosi le maniche della felpa con i polpastrelli. Le gambe incrociate sulla seduta della sedia si stringevano saldamente intorno a una Peroni. Movimenti schematici delle braccia descrivevano all’amica e a se stessa fatti ed eventi, stabilivano spiegazioni infallibili, organizzavano nomi e luoghi in deduzioni univoche. Poi di colpo cancellavano tutto, si ripartiva da capo: nuovi fatti fino ad allora non considerati scompaginavano quanto detto. Era necessario ritornare all’origine, considerare ogni variabile. Emergevano allora altre letture, più economiche, più sicure, meno arbitrarie: andava a delinearsi qualcosa che sarebbe stato spazzato via dal prossimo colpo di manica. A ogni battuta d’arresto le lacrime le facevano capolino tra le palpebre. Fermava la testa, gli orecchini ai lobi smettevano di muoversi e qualcosa le si fissava in mente. Poi il ciclo ripartiva, inarrestabile. In pochi minuti l’avevo potuta osservare ripetersi diverse volte, e ogni volta, da spettatore esterno, mi ero sentito semplicemente impotente.
Si trattava di quello che i più definiscono un dramma amoroso. L’amica, più alta e sicura, preferiva altre formule, come “relazione tossica” o “è un bastardo”. Lo sconforto della minuta sembrava rifiutare tutte e tre le etichette: ogni volta che le veniva lapidariamente avanzata una di queste definizioni, lei scuoteva la testa riccia e proseguiva nel loop. L’amica allora insisteva, d’altronde non sosteneva nulla di irragionevole, eppure la poveretta non ne voleva sapere: non c’erano parole adatte a nominare quel dolore, a contenerlo, ad acquietarlo.
Come riferirsi, in fondo, al male che abita l’amore?
Durante la mia prima comunione il prete, un vecchio suonato, completamente inadatto alla conduzione di una piccola parrocchia di paese, ci disse: “Bambini, portate sempre con voi l’amore, ma non dimenticate il male da cui siete partiti, continuate a coltivarlo.” Ricordo di essermi girato verso i banchi posteriori sperando di incontrare la reazione di qualche adulto. Erano tutti immobili e silenti; solo mia zia dava cenni di vita tentando di strofinare via con un fazzoletto di stoffa una macchia di rossetto dai denti.
A catechismo del resto eravamo stati preparati. Ci avevano insegnato che l’eucaristia consisteva nell’ingestione del corpo di Cristo nel senso più letterale possibile: avremmo mangiato la sua carne, le sue membra, saremmo stati complici di un evento aberrante e omicida. Durante il nostro primo banchetto con l’ostia sacra nessuno dei presenti avrebbe visto le nostre tuniche bianche imbrattate di sangue, né sentito l’odore di cadavere smembrato riempire le navate della chiesa, ma noi avremmo saputo. Ciò non doveva in alcun modo turbarci, non era nulla di nuovo o diverso dall’ordine naturale delle cose: le nostre madri ci avevano allattato e noi le avevamo divorate. La fame d’amore è innanzitutto un appetito cannibale.
Così il male innerva e fonda l’amore. È una verità primigenia e da sempre occultata. L’umanità ha tentato per tutta la sua storia di nasconderla, normando le relazioni e tentando di espellere quel male al di fuori, imputandolo a fenomeni che vengono vagamente definiti come “non-amore”: relazioni extraconiugali, interrazziali, omosessuali e via dicendo. Normativa evidentemente fallimentare, perché il male non è soltanto là fuori, ma anche qui dentro, e non ha cessato di frinire nonostante i nostri continui tentativi di tenere gli occhi chiusi.
La norma comunque si è evoluta nel tempo e con la nostra cultura. Oggi è inclusiva, attenta alle minoranze, più consapevole. Eppure, come molto spesso succede in questi casi, ha cambiato nomi, bandiere e slogan, ma ha mantenuto gli stessi obiettivi e la stessa forma. Ora il reo contro cui puntare il dito, colui che sembra infrangere la nostra velleitaria idea di amore epurato dal negativo, è indicato dal concetto di tossicità. L’aggettivo “tossico” definisce negativamente l’amore di modo da non costringerci ad ammettere che cosa realmente è. Eppure la regolamentazione si infrange di fronte all’inevitabile esperienza umana che la ventenne sconvolta di fronte ai miei occhi attesta nella sua pateticità: tutto è potenzialmente tossico, tutto è destinato a ferire e a essere ferito. Da un’eternità almeno tutto sta cadendo a pezzi, in frantumi, e l’amore non è che una manifestazione di questa lenta corrosione.
Osservai le due amiche per un tempo che mi parve interminabile. Sullo sfondo potevo vedere A. camminare avanti e indietro sulla strada; in una mano teneva il telefono, mentre nell’altra una sigaretta. Alternava sbuffi forzati a boccate di fumo. Sembrava distaccata dalla conversazione; si guardava i piedi come se tentasse di evitare ogni pensiero non automatico.
Quando chiuse la telefonata mi lanciò uno sguardo malizioso: fece scivolare il telefono in tasca, poi simulò con l’indice e il pollice della mano destra una pistola, che puntò prima contro il cielo e poi contro di me. Si avvicinò sempre più; il polpastrello dell’indice finì per toccare la vetrina, schiarendosi a contatto con il vetro. Visualizzai tutti gli aloni e le macchie di sporco che ne popolavano la superficie: mesi se non anni di impronte, smog cittadino e pioggia acida si organizzavano in costellazioni grigiastre, ragnatele di storie perdute. Le luci delle automobili ci sbattevano contro, trasformando quell’anonima vetrina in un’enorme luminaria.
Risposi alzando le mani in aria. Mantenni le gambe incrociate, tuttavia inarcai il collo in avanti. Il mio maldestro tentativo di decoro e compostezza fallì quando dai miei palmi iniziarono a colare gocce sempre più abbondanti di liquami rosacei, andandosi ad infrangere sul cappotto grigio. Perso nelle conversazioni altrui avevo infatti scordato di pulirmi le mani dai residui del kebab: le salse rossa e bianca si erano unite all’acqua dei pomodori e al grasso dei brandelli di carne formando un composto viscido e oleoso. Corsi ai ripari tentando di pulire la lana del cappotto con i pochi tovaglioli di carta rimasti. Là fuori A. rideva della mia goffaggine coprendosi la bocca con il dorso di una mano. Quello schifo nauseabondo mi era rimasto sulle mani a sufficienza da farle raggrinzire, come fossero state in ammollo. Mi chiesi se fosse penetrato sotto la pelle, se scorresse ora tra le vene e le arterie pompato dal cuore.
A. rientrò. Mi diede un bacio sulle labbra, poi mi ficcò una sigaretta in bocca. “Sei un disastro” esclamò. “Voglio prenderlo per un complimento”, risposi.
“Ora ti porto a bere.”
“Dobbiamo proprio?”
“Sì, dobbiamo.”
“Offri tu vero?”