Poesie di Giuseppe Fonte, illustrazione di Andrea Giussani
Isidoro Isidoro ha le ciabatte di panno e cammina scalza. Rincorre ogni giorno la novanta di via Tibaldi. Esce col cappotto liso e il maglione a maglia della nonna, perché non ce la fa con i saldi neppure. E oggi aveva le scarpe scucite sotto e un foro sul di dietro dei calzoni di jeans blu sbiancati dall’acqua calda, ed era in salotto quando la vidi la prima volta vestita così. Ci teneva aggrovigliati a cerchio col sorriso, e offriva dolci stantii, ma con amore. E vuole -dice- cambiare casa che l’è caro l’affitto, ma non la trova col suo sorriso amorevole. Gli ho finito di dipingere casa che era ieri, e oggi il gatto le ha rassettato gli spazi bianchi con zampate di terriccio e peli neri. E dice che se lo becca lo fa tutto a pezzi. Si scolora quando fa nuvolo nel cielo sempre grigio, sempre di settimana. E vuole fuggire dall’Italia, da Milano, dalle parole. E ha tempra e carattere mitigato dalle fughe, dal partire. Ama le carezze del sole e vede forme di vita in forme di cose, che vede con occhi lucenti ma opachi, che è miope e le duole la schiena, il collo, la testa, nei giorni che sono più spenti. Ama l’amore di passioni sfrenate ed è Isidoro il suo nome. Ne ha un altro ma è falso e duro e stona quando lo ascolta , le sembra un coro di ombre e menzogne. Le ho dipinto il muro perché era di arancio pallido e lo voleva vivo, la vuole un respiro la sua casa, a vuole sua la sua casa, non d’altri, la vuole sostantivo e soggetto, per viverci in verso e dire “mia”, “io”. Le manca un regno per essere e dice “e se”, come cose che mutano da ieri a ora, un chissà, ma non vede bene e cambia occhiali e case. E sarà per sempre un sorriso perché vita lei ha nei suoi anni dorati. Isidoro va scalza di stanza in stanza, con la punta per terra, il tallone per aria, poi le fa male qualcosa, e si tocca in basso la pancia. Lei sa, capisce, ha la forza, l’amore, ma le manca l’aria.
L'uomo della valle Sono e sarò sempre quello dell'ultimo banco che lava i pavimenti di domenica e la sera siede al patio mirando forme tra le ombre che indossa la vita come si veste una puttana e cammina col passo disperato di chi ha scelto il patibolo per non entrare in quella porta Sono e sarò sempre l'estraneo il cupo l'introverso che sorride col volto di sebo e ha il cuore rattrappito di fumo e fuliggine e quando dorme trema e quando è sveglio sogna. Colui che avrebbe potuto e non ha mai mostrato alla realtà il proprio volto l'aggiunto l'uno come tanti tra miliardi di altri tanti che quando si è sentito chiamare ha preferito guardare le foglie che cadono il fiume che scorre il vento che ricorda al fuoco il suo vigore Sono e sarò sempre l'uomo della valle che sale al monte con occhi di rugiada e trova sguardi di pietra e fango e scivola per sentieri che crede tortuosi e la notte guarda le stelle che non ha visto mai E un giorno verrà e sarò sempre io rimirando dalla finestra i passi masticati dalla via
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