Articolo di Giulio Paroli
Uno dei film più attesi del 2024 è indubbiamente Furiosa di George Miller. Il regista australiano ha infatti ripreso in mano la saga Mad Max, realizzando uno spin-off dedicato al magnifico personaggio dell’Imperatrice Furiosa, co-protagonista del quarto capitolo, uscito nel 2015 e divenuto immediatamente un cult, Fury Road.
Ed è proprio di quest’ultima pellicola che vogliamo parlare oggi, ma con un taglio abbastanza particolare: analizzando quella che è la simbologia del film. Quindi i rimandi al sacro, il contrasto tra la vita e la morte (tema centrale), l’utilizzo dei colori e tutto ciò che in qualche modo può essere utile a dimostrare che George Miller, con questa storia, ha voluto realizzare ben più di un semplice prodotto d’intrattenimento.
Partiamo dalla trama. Siamo in uno scenario post-apocalittico in cui la terra è un enorme deserto abitato da tribù di predoni e in cui si combatte per acqua e petrolio (quest’ultimo utilizzato come carburante per i veicoli, mezzo fondamentale per combattere e saccheggiare i rivali). La popolazione si divide in piccoli centri urbani, ognuno amministrato da uno spietato monarca. In uno di questi, la Cittadella, dominata dal malvagio Immortan Joe, l’Imperatrice Furiosa (uno dei migliori ufficiali dell’esercito del sovrano), parte per un’apparentemente semplice missione di trasporto merci verso un’altra roccaforte; tuttavia, improvvisamente, con la sua blindocisterna (un enorme veicolo corazzato), devia dal percorso prestabilito per portare in salvo cinque innocenti ragazze, giovani mogli del crudele tiranno della Cittadella. A seguito di una successione di sfortunati eventi, ad aiutarla ci saranno anche Max, uomo solitario che ha perso la sua famiglia, e Nux, soldato dell’esercito di Immortan Joe convertitosi alla causa di Furiosa.
Che questo sia un film politico lo si capisce sin dai primi minuti analizzando proprio la figura di Immortan Joe, il villain di questa storia. La stesso Miller ha affermato di aver scritto il suo personaggio prendendo come riferimento i grandi sovrani della Storia, i soli al comando di un esercito e in grado di controllare le risorse del territorio. Infatti, la posizione di monarca del nostro antagonista esiste in virtù di quello che è il suo controllo dell’acqua in tutta la zona della Cittadella: le persone povere muoiono di sete e di stenti, mentre lui ha un’enorme riserva d’acqua che apre al popolo solo per pochi secondi al giorno. La ricchezza e la malvagità stanno, dunque, in chi controlla i mezzi necessari alla sopravvivenza; e se ciò non fosse abbastanza come attacco al capitalismo, l’acqua di Immortan Joe è chiamata “Acqua-Cola”.
Il contrasto tra povertà e ricchezza è sottolineato anche sul piano visivo: le persone stanno in basso mentre la famiglia reale e i soldati si trovano in alto, all’interno di grandi rocce scavate e attrezzate con sistemi di carrucole; e sulla cima di queste rocche si trovano enormi distese di rigogliosa vegetazione. Quindi in mezzo al deserto arido e secco, il cui colore dominante è un caldo giallo, svettano delle verdi rigogliose creste di montagne piene di piante continuamente innaffiate. Il contrasto è netto e quanto mai efficace.
Ma non solo: come in tutti i regimi totalitari, Immortan Joe è stato attento a creare un culto della sua persona (la parola “culto” non è scelta casualmente: la gonna che il tiranno indossa, a detta del regista, doveva ricordare una tonaca religiosa, mentre per altri addetti ai lavori il riferimento erano le tende di un crematorio). Egli è un vero e proprio padre per i suoi soldati, non a caso chiamati “figli della Guerra”.
Il character design di questi ultimi è pure interessantissimo: sono tutti bianchi cadaverici con gli occhi incassati e dipinti di nero quasi a simulare un esercito di scheletri che si muove a metà tra la Vita e la Morte; tanto che, come farà intendere Nux durante il film, la loro è un’esistenza molto breve, a causa di una serie di tumori che essi sviluppano in virtù del loro stile di vita profondamente malsano. Inoltre, oltre ai segni di suddetti tumori, i soldati espongono sul corpo profonde cicatrici che si intrecciano formando macabre rappresentazioni di teschi o altri simboli di morte.
I figli della Guerra sono rappresentati come anime morte che si cibano di corpi vivi; ne è un esempio il fatto che questi si alimentino tramite trasfusioni di sangue con i vari prigionieri da loro catturati nel deserto. Questi ultimi, una volta imprigionati, vengono marchiati e raggruppati in base al loro gruppo sanguigno, e ciò proprio per permettere ai figli della Guerra di individuare quelli compatibili con il loro tipo di sangue; la macabra usanza, infatti, è quella, durante le loro scorribande del deserto, di portare con loro delle “sacche” (così vengono chiamate nel film) per il proprio sostentamento, ovvero dei prigionieri che vengono incatenati alle auto e che fungono, tramite un sistema di aghi e tubi endovenosi, da enormi contenitori viventi di sangue da cui trarre alimentazione.
Ed è proprio così che entreranno in contatto Max e Nux: il primo sarà la “sacca” del secondo per la missione di scorta della blindocisterna dell’imperatrice Furiosa.
Infine, a suggellare questa idea di soldati a metà tra vita e morte, dobbiamo necessariamente ricordare il gesto dell’Ammirazione (in inglese witness, ovvero “assistere”, “essere testimoni di”): i Figli della Guerra che decidono di sacrificare la loro vita in guerra per il loro padre-monarca vengono “ammirati”, ossia vengono incitati e glorificati per il loro gesto eroico. La mitologia della morte creata da Immortan Joe arriva al punto di portare su un piano di sacralità la scelta del sacrificio, in nome di una seconda vita nel Valhalla in cui sarà permesso, a chi è stato ammirato, di banchettare con i grandi eroi della Fury Road, la strada sacra ai cancelli del Paradiso.
Come nelle migliori dittature, insomma, Immortan Joe è riuscito a creare un’aura quasi messianica attorno alla sua figura, a cui è collegata una narrazione epica: in particolare, quello a cui assistiamo è un Mito della Strada. Mitologia che, in quanto tale, è portatrice di valori; valori in questo caso assai macabri, che attribuiscono una maggiore importanza alla morte anziché alla vita e che spingono gli uomini a sacrificarsi per un regime che li tratta solamente come pezzi di ricambio di una vettura.
In effetti, parlando dei Figli della Guerra, non possiamo non notare come il loro design suggerisca in qualche modo il loro ruolo all’interno di questa società distopica. La loro maggiore ambizione, infatti, è quella di raggiungere una simbiosi con la macchina, divenendo progressivamente loro stessi un’autovettura o, quantomeno, parte di essa. Ne è un esempio il loro spruzzarsi sulla bocca una vernice metalizzata prima di essere Ammirati: il corpo che si prepara al sacrificio deve essere una macchina nuova fiammante, fresca di verniciatura, tirata a lucido per essere accolta nel grande Valhalla. Oppure, più semplicemente, pensiamo a Furiosa, ufficiale dell’esercito, che è solita dipingersi il viso di nero utilizzando il grasso di auto come tinta.
Le componenti di un automezzo e la loro sporcizia diventano vesti sacrali, a suggellare questa simbiosi corpo-macchina che si inserisce nel dialogo tra sacro e profano. Uomo e vettura diventano un tutt’uno in questo mondo distopico in cui è l’automobile a regnare e in cui ogni canone di sacralità è ribaltato: non è sacro ciò che è bianco puro e candido (si pensi alle linde tonache dei sacerdoti), ma lo è ciò che è sporco, ciò che è nero e putrido. E, soprattutto, questa simbologia non è alta e astratta, bensì estremamente semplice e concreta: l’effige sacra è composta non da segni arcani che necessitano di articolate interpretazioni (si pensi per esempio alla complessità del Pantheon delle divinità induiste), bensì da un banale volante; un volante che, ancora, non rimanda ad antiche storie contenute in testi rivelatori (si pensi questa volta ai crocifissi, che implicano la conoscenza dei numerosi Vangeli sulla vita di Cristo), ma ad una semplice vettura, ad un oggetto materiale, tangibile, individuabile. Una semplificazione che permette al fedele un’estrema e, soprattutto, immediata identificazione con il sacro.
Non è un caso che i Figli della Guerra prendano, all’inizio del film, i loro volanti da quello che è un vero e proprio altare, in cui tutti sono accatastati sotto un’unica grande effigie di un enorme teschio.
Strada, Morte, Valhalla: la struttura della mitologia costruita in questa società distopica è tanto semplice quanto efficace; i Figli della Guerra non devono conoscere altro che questi tre dogmi, utili a capire quanto sia facile per loro accedere al piano della sacralità e, quindi, secondo il mito, dell’immortalità.
Ma torniamo alle immagini e ai colori. C’è un ultimo elemento della pellicola che dobbiamo considerare: le cinque giovani mogli del despota rapite da Furiosa. Queste, anche solo visivamente, cozzano con la sporcizia e la bruttura di cui parlavamo sopra: sono pulite, pure, avvolte in vestiti bianchi. La loro immagine è, fin dal primo momento, appagante per l’animo dello spettatore, in netto contrasto con tutto il mondo completamente alla deriva descritto finora. Lampante in questo senso è la scena dell’incontro tra Nux e una delle madri nel retro della blindocisterna; un corpo bianco latte, candido e intonso della donna che si affianca a quello sempre bianco dell’uomo, ma di un bianco cadaverico, malato e pieno di cicatrici. Un contrasto dolorosamente romantico; o romanticamente doloroso, scegliete voi.
Le cinque mogli di Immortan Joe sono ciò che rappresenta la Vita, ciò che si contrappone alla pervasività della Morte in questo mondo terribile. A conferma di ciò riportiamo una frase pronunciata da una delle cinque mogli nella seconda parte del film (non diremo il contesto in cui la pronuncia per non fare spoiler, casomai qualcuno dovesse ancora recuperare il film) in merito ai proiettili: “Lei era solita chiamarli ‘antisemi’, ovunque tu pianti qualcosa, muore”. Il contrasto eterno tra Vita e Morte, tipico di quasi tutti i film post-apocalittici, è qui racchiuso un bellissimo contrasto tra due oggetti simili: piccoli e apparentemente innocui, hanno tuttavia effetti diametralmente opposti su ciò che li circonda. Mentre il proiettile porta morte e lacrime, il seme fa nascere vita e acqua.
Le mogli dunque sono la rappresentazione della vita che germoglia anche nell’aridità del deserto, ma soprattutto della Speranza. Speranza d'un domani migliore, di una ribellione al sopruso, di un barlume di libertà che illumini il buio dell’oppressione in cui vivono. È per loro che Furiosa si mette contro il regime, e sono loro stesse che, sporcandosi le mani, andranno ad affrontare lo stesso Immortan Joe.
Le cinque mogli sono un simbolo, e ciò è sottolineato non solo, come sopra detto, dal colore bianco che le rappresenta, ma anche dal loro modo di muoversi e atteggiarsi. Nel corso del film impareremo a vedere che non sono cinque deboli ragazze indifese, bensì sono un tutt’uno che si fa forza e si alimenta, un’unica entità che decide di ribellarsi al marito despota. Se infatti andiamo a leggere le parole di Miller in persona capiamo che questi personaggi ”dovevano funzionare come le cinque teste dell’Idra, funzionare da unità”.
In conclusione, che Mad Max: Fury Road sia un’immensa esperienza visiva è qualcosa di indiscutibile. Negarlo sarebbe, oltre che disonestà intellettuale, anche andare a tradire quello che è stato il percorso creativo di un’opera la cui sceneggiatura non è stata scritta con le parole (come sempre accade) ma direttamente partendo un elaborato storyboard di più di tremila tavole (in un’intervista uno dei produttori ha ricordato che “sembrava di fare un fumetto, non un film”). Ma, dall’altra parte, fermarsi alla sola immagine sarebbe un torto altrettanto grande a questa pellicola, la quale va molto oltre il semplice road movie per veicolare un contenuto altamente politico. Un film, quindi, attento a raccontare, attraverso il genere, non solo lo sfruttamento capitalista delle risorse naturali, ma anche il perenne dualismo tra Vita e Morte; ma soprattutto capace di reinventare una simbologia del Sacro e del Profano inserendola nell’estetica dell’apocalisse e veicolandola tramite la simbiosi uomo-macchina.
Mad Max: Fury Road è un’opera artistica che è a sua volta creatrice di un’arte post-apocalittica; concetto che, di nuovo, è stato espresso benissimo dalle parole di Miller in merito: “Nei film apocalittici siamo portati a trasformare il mondo in una gigantesca discarica, ma non è una cosa compatibile con l’uomo. Anche gli uomini primitivi potevano produrre opere d’arte come le pitture rupestri. Quindi la regola che ci siamo dati è stata ‘il fatto che siano in un deserto in un mondo post-apocalittico non vuol dire che le persone non possano fare cose belle’.”
Beh, se avete visto il film, sarete d’accordo nel dire che il buon George, con questo film, sia andato ben oltre le semplici ‘cose belle’. E chi scrive non ha il minimo dubbio che con Furiosa saprà stupirci di nuovo.