Articolo di Carlo Danelon
Nel 1945 a Belgrado si stampava un testo dall’aspetto piuttosto inattuale, se non fuori tempo; certo solido e composto: Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić. Il romanzo dichiara forse l’appartenenza alla sua sanguinosa epoca, tuttavia, nella scelta dell’asse strutturale, che è anche il suo unicum e lo schietto sigillo del suo titolo - la scelta, insomma, di raccontare l’arco di una vita secolare: quella del ponte di Visegrad, un paese della Bosnia orientale. Storia, questa, integrale: dall’idea al crollo, in fondo da sempre preparato eppure non meno istantaneo e definitivo, sotto la furia dei bombardamenti, di quanto infinita e definitiva era parsa la sua costruzione cinquecentesca al tempo del dominio ottomano. Benché il racconto cresca poi fino a diventare una parabola della finitezza dei destini individuali, la sua condizione d’esistenza è l’immaginazione di un fanciullo bosniaco: «La prima immagine del ponte, immagine destinata un giorno a materializzarsi, si delineò, naturalmente ancora del tutto imprecisa e nebulosa, un mattino del 1516, nella fantasia di un bambino di dieci anni che abitava nel vicino villaggio di Sokolovići, mentre, lungo questa strada, lo portavano lontano dal suo villaggio, verso la scintillante e terribile Istanbul» come “adžami-oglan”, tributo di sangue cristiano al sultanato. Il potere di mettere in atto tale fantasia gli sarebbe derivato dal fatto che «quel che divenne in seguito il bambino nel cesto lo raccontano ormai i libri di storia in tutte le lingue»: il visir Mehmed-pascià Sokoli, «genero del sultano, condottiero e statista di fama mondiale» (mi avvalgo sempre della traduzione di Dunja Badnjević). Appesa a questa vita descritta sin dalle prime righe nella sua sconcertante fragilità, ad una figura indispensabile eppure così tangenziale alla trama, la storia del ponte sulla Drina e della sua gente si dilata sull’arco di quattro secoli più lunghi di qualsiasi vita, fuorché di quella del granitico protagonista, «il senso e la sostanza» del quale sono «nella durata». Nell’economia del romanzo si può trarre e silentio, ma senza il sospetto di sbagliare, la regola opposta per gli uomini, il cui ruolo si risolve essenzialmente nella sparizione: dalla memoria del lettore e dalla comunità di Visegrad, una piccola cittadina della Bosnia orientale attraversata dal fiume, unita dal ponte, animata dalla rakija e dalle leggende locali. Snodandosi per una fitta e sterminata serie di ritratti spesso memorabili, Il ponte sulla Drina assume presto il tono di un’epica sociale disimpegnata, che suggerisce un’equivalenza tutta tecnica tra la memoria evanescente del lettore, teso d’istinto a cercare i tratti ricorrenti come in un album familiare, e l’evanescenza della vita stessa, il cui metro di paragone è sempre il ponte, che «nel susseguirsi dei cambiamenti e nel rapido alternarsi delle generazioni [...] rimase immutato come l’acqua che scorreva sotto le sue arcate». La considerazione di questo dato strutturale conduce, io credo, al cuore del romanzo, sul quale troneggia a suon di sententiae la voce del narratore, onnisciente e giudicante nel suo distacco, eppure nel contempo così astratto e così coinvolto da commentare viva voce una storia lunga quattro secoli senza mai rinunciare al partecipe riferimento alla «nostra gente», alla «nostra kasaba». Viene anzi il sospetto che la velleitaria cronaca di Visegrad cui nel romanzo afferma pubblicamente di dedicarsi il müdris (maestro) Husein Efendija, che «in venti anni era aumentata solo di quattro pagine perché più il muderis invecchiava, più aumentava la stima di se stesso e della sua cronaca e diminuiva quella degli uomini e degli avvenimenti intorno a lui», sia stata scritta proprio da Andrić, e viceversa sia cresciuta al punto da inglobare e far sbiadire in poche pagine lo stesso Husein e la sua ambizione. Del resto il sospetto si avvicina precipitosamente a una certezza quando il narratore, in un’espressione disinvolta che però è anche uno sguardo metanarrativo sul testo, dichiara l’imminente fine della «cronaca del ponte della Drina». Sul piano narratologico, comunque, questo impero della terza persona, il rispetto scrupoloso della progressione temporale e la dimensione pubblica del racconto decretano un impianto formale ottocentesco, ignaro di ogni prospettivismo modernista e quindi, nel 1945, decisamente attardato. Per fortuna, però, la letteratura non si fa sui manuali, spesso eruditissimi fotofinish di gare a cui nessun grande scrittore ha mai partecipato, né può sfuggire a un’analisi più attenta la particolarità della strada imboccata da Andrić per dare vita nel dopoguerra, dopo Proust e Joyce, a un racconto diverso ma anch’esso sotto ogni punto di vista epico. Dissolvendo i suoi piccoli eroi nella vastità di una storia che se ne dimentica o li trasforma, infatti, la trama si scompone in una miriade di monadi in cui tutta, nel momento inimmaginato della fine, si specchia. Per questo, in palese contraddizione con il più elementare buon senso del romanzo tradizionale, gli eventi più straordinari si ripetono; negano, in questo modo, di essere colpi di scena - e anche, in una certa misura, di essere straordinari. Due volte, a distanza di anni, capita che un cittadino ubriaco percorra in bilico il parapetto del ponte; due volte, con un interludio di decenni, Visegrad è sconvolta dal più canonico dei turning point narrativi del romanzo tradizionale: il suicidio. Anche questo sbiadisce presto, a contatto con l’apparente eternità del ponte. Ma non è l’unico: una serie di topoi si succedono nella galleria storica dei ritratti di Visegrad offerti dalla cronaca, a significare lo spazio in cui il romanzesco sarebbe possibile prima di farlo detonare e dissolverlo nell’ininfluenza delle cose che passano. Senza alcuna pretesa di contatto intertestuale ma con la curiosità di un’affinità tipologica, se ne vedano due esempi paradigmatici per la storia e la geografia del testo. La passeggiata del Guercio sulla balaustra del ponte, tra le altre cose un raffinato pezzo di bravura di Andrić, ricorda da vicino il racconto altrettanto virtuosistico composto all’inizio di Guerra e Pace da Tolstoj, quando il folle Dolochov, già ubriaco, scola una bottiglia in bilico sullo stretto davanzale di un palazzo di Mosca. Né d’altra parte si può trascurare il bovarismo esibito, persino parodistico della storia del rapporto tra due tristi musicisti dilettanti, la signora Bauer (moglie di un colonnello asburgico) e il dottor Balasz, le cui lunghe passeggiate ricordano subito le promenades sottilmente sensuali condivise da Emma e Léon nel romanzo di Flaubert, e il cui indefinibile affaire si stempera in un finale tragico che è quanto di più topico si possa immaginare nel romanzo otto-novecentesco: la morte di lui, fulminato dal tifo, e la partenza di lei, che nel paese pettegolo e ignorante si vocifera «ricoverata in un sanatorio vicino a Vienna» (si ricordi, sempre sulla soglia della Grande Guerra, anche La montagna incantata di Mann). Basta però rammentare il finale di Madame Bovary da un lato e quello di Anna Karenina di Tolstoj dall’altro per cogliere la cesura netta che Il ponte sulla Drina pone tra sé e questo genere di modello strutturale, per scorgere l’attrito tra il manierismo delle sue pagine, costruite con la bonarietà un po’ artigianale del collezionista, e il grande mosaico in cui sono inserite, che risponde piuttosto alla scala dello storico e allo sguardo del sociologo. Tra due dei testi più prototipici della grande stagione romanzesca russa da un lato e centro-europea dall’altro, Il ponte sulla Drina riannoda i fili delle due tradizioni per troneggiare sullo spazio di un’area geograficamente mediana, quella balcanica, che all’incontro e allo scontro di popoli diversi deve, nel bene e nel male, tutta la sua storia. La stessa storia al centro di questo libro, che poi di centrale non ha nulla se non il ponte («Visegrad vive del ponte e cresce partendo da esso, come da una radice indistruttibile») e si compone invece di un incrocio di patriottismi mitigati, di sguardi periferici: nel contempo verso l’Oriente della lontana Istanbul e verso l’Occidente dell’incomprensibile Vienna. Da questa prospettiva offre il romanzo di Andrić anche un affresco inusuale degli anni immediatamente precedenti la finis Austriae, quel crollo che Joseph Roth e gli ori bizantini della Secessione viennese hanno abituato gran parte del pubblico europeo a considerare la fine di un mondo e tuttavia qui altro non sembra se non lo sfaldamento sotto spinte centripete di un territorio che all’impero di Francesco Giuseppe non ha mai sentito di appartenere. È la storia, semmai, di una comunità che vede lentamente, inesorabilmente ritrarsi nei secoli la mano tollerante della sua antica tradizione ottomana. Insomma, ancora una volta una distanza: a decretare l’insensatezza di una guerra combattuta in nome di un’istituzione impalpabile (qualunque essa sia) o, al contrario, a infiammare i discorsi nazionalisti della gioventù bosniaca sulla kapija («il punto più importante del ponte») in quell’«estate del 1914» in cui «la kasaba offriva un piccolo ma eloquente quadro dei primi sintomi di un male che, con il passare del tempo, sarebbe diventato europeo, poi mondiale e poi universale». Il tutto sulle premesse e le promesse di un sogno, quello nazionalista, di una centralità da pagare con il proprio sangue: al prezzo di scoprire che anche il ponte, come tutti coloro che non sono voluti cambiare, era destinato a sgretolarsi sotto il peso di un’idea.
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