Recensione di Viola Bertoletti
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Da trentacinque anni Hanta pressa carta vecchia
e se in un’altra vita dovesse scegliere di nuovo, ancora non vorrebbe far altro che quello che ha fatto per trentacinque anni.
Pigiando alternativamente il pulsante verde e il pulsante rosso, la pressa meccanica, fedele compagna di solitudine, lo aiuta a svolgere quello che per l’impiegato è molto di più di una semplice mansione, è una vocazione, è il compito puro e doloroso della sintesi.
Quella a cui Hanta, inconsapevolmente –con quella solennità un po’ infantile di chi è ispirato – dà adito, infatti, altro non è che la sintesi ultima tra presente e passato, tra vita e arte, tra vita e morte. Il movimento della pressa è il rumoroso moto dell’universo; la sua azione meccanica – allo stesso tempo mistica e inquietante – l’icona moderna della primordiale Dea Madre.
Nelle viscere di Praga, nella conca sotterranea del mondo,
ogni giorno Hanta manda al macero tutti i tipi di carta: da quella ingiallita dei libri vecchi a quella ruvida e sgualcita delle tappezzerie; da quella plastificata dei biglietti di compleanno di compleanni mai avvenuti, a quella sudicia e insanguinata della macelleria, perché Hanta non ha schifo di niente, mentre un poco tormentato dal silenzio, esegue con dedizione quella che definisce una strage degli innocenti, perché spesso gli capita di trovarsi a comprimere insieme alla carta, intere colonie di topi e folli sciami di mosche carnarie.
Ma ciò che egli ama di questo mestiere non è solo il fascino della distruzione, a cui pur non si sottrae, ma anche e soprattutto il prodigio della creazione artistica. Hanta, istruito contro la sua volontà, in mezzo ai cascami della società, ai suoi scarti e ai suoi rottami, depone dentro al tino della pressa un libro aperto su una frase di Kant, un consiglio di Laozi o un frammento di Hegel.
Al suo comando, la pressa trasformerà il pacco in un parallelepipedo sigillato e compatto,
pronto per il passaggio successivo del processo di smaltimento; ma ogni pacco conterrà una traccia di quello che di straordinario ha lasciato e continuerà a lasciare l’uomo sulla terra: una piccola fiammella di eternità.
La sua offerta è completamente inutile in termini materialistici, perché non ha destinatario, perché l’umanità di ieri e di oggi verso cui essa è diretta ne è irrimediabilmente all’oscuro, ma proprio per questo essa si fa gratuita elargizione in onore di un sapere che è universale, dell’uomo di ogni tempo e di ciò che sempre lo salva: il portentoso frutto del suo ingegno.
Fin dalle prime pagine il lettore capirà quindi di avere a che fare con una sorta di artista-collezionista dell’infinito, o, come il protagonista stesso si definisce, con un autentico spaccone dell’eternità.
Ironico e lirico, aderente alla cruda consistenza del reale e allo stesso tempo poetico,
Bohumil Hrabal scrive con l’alfabeto dei sensi, non racconta ma trascrive in un modo quasi tangibile ciò che lui, proprio come il lettore, sembra vedere con gli occhi e sentire con le dita: enormi brocche di birra, tracannate una dietro l’altra in compagnia dei topi, uno spesso tetto di tonnellate di libri sotto cui trascorrere le notti, accanto a una piccola zingara, Gesù che gioca a tennis nelle cloache di Praga, il tutto accompagnato dal costante e inarrestabile masticare della pressa.
Ma poi, travolto da un mondo che cambia e cambia senza di lui, sperimenta il disinganno: all’improvviso precipita il suo pericolante tetto di libri, cala come un sipario sopra di lui la parete metallica della sua pressa.
Quella che Hanta subisce è la fragorosa caduta di un piccolo mondo nascosto:
è la morte dell’epoca delle piccole gioie e l’inizio dell’età contemporanea, segnata dallo sviluppo del sistema industriale. Egli si vede improvvisamente sostituito da una nuova classe di operai – nel senso che il termine acquisì a partire dalla seconda rivoluzione industriale e che prese piede progressivamente fino ad affermarsi nell’attualità in questi termini: non uomini ma efficienti e anonimi anelli di una catena di montaggio.
A questo stravolgimento Hanta non può che opporre un ineluttabile rifiuto, il più estremo.
Accanto alla pressa ha vissuto per trentacinque anni, attraverso la pressa ha conosciuto l’arte e dentro la pressa adesso ritorna per diventare letteratura e lasciare al lettore la sua impronta sull’eternità.
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