Racconto di Viola Bertoletti
TEMPO DI LETTURA 8 MIN.
Qualche volta lo specchio mostrava a Eva solo quello che non voleva vedere.
Il suo sguardo era fisso al centro del riquadro e con dispiacere notò, come per la prima volta, che proprio nel mezzo, in una retta quasi perpendicolare alla fronte, compariva il suo naso. Affilato e ad angolo acuto, le sembrava uno spigolo posto lì al centro del volto quasi di proposito, perché lo sguardo di un qualsiasi osservatore inevitabilmente vi inciampasse. Ripassò di color mattone il contorno della bocca con una matita della madre dalla punta sbeccata.
Il risultato complessivo le parve insoddisfacente, ma era tardi. Il tempo le era sfuggito di mano e come spesso accadeva si era persa in quella sua meticolosa e rituale indagine di sé. 16:17. Alle 16:30 avrebbe dovuto essere lì. Arrivare in ritardo a un primo appuntamento non era un ottimo inizio. Doveva uscire.
Inserì le chiavi nella serratura ma si dimenticò di estrarle per chiudere la porta di casa, così lasciò aperto e come spinta da una folata di vento si lanciò a perdifiato giù per le scale. Fuori pioveva, ma nella fretta aveva scordato l’ombrello. Si mise a correre sotto i tetti e i porticati, non tanto sporgenti da ospitare la sua slanciata figura e ripararla dalla pioggia; infine correva in mezzo al marciapiede, un po’ trafelata ma intimamente compiaciuta della sua stravaganza.
A un tratto le cadde lo sguardo su una pozzanghera a qualche metro da lei e si fermò, perché vide che una scura sagoma alata ne attraversava,
specchiandosi, la superficie. Guardò in alto e vide un corvo volare nel cielo grigio nella sua direzione. Prima di superarla sbattendo goffamente le ali, l’uccello nero lasciò cadere dal becco la vuota metà di un guscio di noce. Eva raccolse subito l’oggetto, poi si girò per seguire il volo del corvo, ma quello era già scomparso facendosi strada tra i fili del tram, sotto la luce fredda dei lampioni. Dopo aver guardato per un momento il guscio, se lo mise in tasca e riprese a correre verso la fermata; intanto pensava a quello strano evento, alla fortuita epifania del corvo e al suo insolito dono.
Che fosse un presagio? Una fatale profezia di sventura, o semplicemente un simbolo, un ancora incomprensibile segno premonitore?
Ma che cosa poteva significare il tetro volo di un corvo in quel momento di speranza ed euforia? Non era tempo per lei di angosciose elucubrazioni, e dopo qualche minuto dimenticò la faccenda e cominciò a pensare a tutt’altro.
Salì sul tram giusto in tempo e salutò dal finestrino occasioni perse e amori lontani. Laggiù, in mezzo al traffico le rotaie si incrociavano in un punto che nessuno, neanche il navigato conducente conosceva e all’angolo della strada, esattamente alla sesta fermata, un volto nuovo le avrebbe sorriso. Per il momento le passavano accanto, scorrendo come immagini su una pellicola, i cartelli stradali, gli alti palazzi dalla pelle grigia, i muri scrostati e i giganteschi volti della pubblicità con le loro false promesse.
La pioggia disegnava lacrime sulle loro smorfie piatte. Ma Eva non si lasciava ingannare da loro: dopotutto sapeva, e con assoluta certezza, che nessuno di quei radiosi garanti di glitterata felicità le avrebbero dato quel che cercava. Ciò che cercava non esisteva in natura, non ne parlavano in giro e non lo vendevano nei supermercati.
Che cosa fosse esattamente non lo avrebbe saputo dire nemmeno lei, ma in certi momenti era in grado di afferrarne l’essenza; lo percepiva azzurro e alto come un grido. Ad occhi chiusi, lo tastava nella forma indecisa dei suoi innumerevoli volti, le cui linee si incastravano confuse l’una sull’altra. Poi d’un tratto era chiaro: sapeva d’autunno, di castagne per terra, di macchie di caffè e di baci sul marciapiede.
Altre volte era solo un’ombra, anzi la mano di quest’ombra, stretta nella sua, tra i sedili di un piccolo cinema sospeso da qualche parte nel nulla.
Quando le porte del tram si aprirono con uno sbuffo, le sembrò che le irrequiete e folli linee delle sue aspettative prendessero istantaneamente forma: quella del ragazzo sotto l’ombrello che la attendeva alla fermata. Lui era bello di una bellezza austera, seriosa e a tratti inquietante. Eva si accorse subito con stupore che gli occhi di lui trattenevano una certa indicibile stranezza: dire che erano azzurri sarebbe stata un’approssimazione inesatta.
Le iridi erano piuttosto lastre di vetro e per un momento, per un momento soltanto, Eva ebbe paura di poter naufragare in quel Mar Glaciale Artico e per sempre scomparire tra le scaglie di ghiaccio e i flutti che si increspavano attorno alle sue pupille.
Con poche parole si presentarono e parlarono di università, di mezzi pubblici e di libri. Lui la invitò a casa sua, così avrebbero letto un libro di racconti che Eva aveva portato con sé e che a entrambi piaceva tanto; lei strinse il guscio di noce nella tasca e accettò. Entusiasta, aumentava il passo per raggiungere più in fretta la stazione del passante ferroviario, quasi correva e l’ombrello non la copriva più. Saliti sul treno, Eva controllava continuamente le fermate. Il pensiero di aumentare l’intimità con quello sconosciuto la elettrizzava.
Sentiva nel profondo che in questo modo ne avrebbe svelato il mistero:
avrebbe rotto la superficie di ghiaccio del suo impenetrabile sguardo e conosciuto dietro tutto quel gelo la miniera inesplorata di un essere umano esattamente uguale a lei, con le sue segrete opinioni: la nascosta e più densa sostanza di una natura affascinante. Alla fine c’erano già tutte le premesse: ascoltavano la stessa musica, lui apprezzava il cinema e gli stessi scrittori che piacevano a Eva. Notò però, anche se non vi diede grande importanza, che lui taceva forse un po’ troppo e quando parlava la sua voce era monocorde e insensibile alla variazione di toni e argomenti.
A un certo punto le disse di scendere, ma Eva constatò che la fermata non compariva da nessuna parte: nessun cartello ne indicava il nome. Usciti dalla stazione percorsero certe vie buie e deserte; Eva non conosceva quella zona, non c’era mai stata, anche lì non era presente alcuna insegna. Aveva inoltre la vaga impressione che più si avvicinassero all’appartamento, più le strade si spogliassero dei loro contorni, e le sembrava di avanzare ad ogni passo in una sempre più ombrosa foschia. Alla fine arrivarono all’appartamento.
Il palazzo doveva essere stato in origine un magazzino industriale, poi riadattato a condominio. Interamente di cemento, squallido all’esterno e incredibilmente anonimo all’interno. Quando Eva lo fece notare all’inquilino egli rispose che era perché doveva ancora sistemarci dentro delle piante. Il soffitto era molto alto e solo una scala di metallo che portava obliqua al secondo piano e un divano non foderato ingombravano la stanza, per il resto completamente vuota.
Eva era inquieta ma ancora la animavano le braci ardenti del precedente entusiasmo, che non voleva e non poteva tradire.
Sedette quindi sul divano ed estratto il libro dalla sua borsa, glielo porse perché iniziasse a leggere. La sua voce cominciò titubante ma a poco a poco si fece sempre più incalzante. Eva notò ora con orrore quanto questa fosse fredda, quasi impersonale nella sua assoluta piattezza. Questa assenza di tono deformava il significato delle frasi, espropriandolo. Anche il suo volto, come la voce, le parve spaventosamente inespressivo.
Le sue labbra si contraevano appena, solo quanto bastava per emettere il suono, proprio come avrebbe fatto un ventriloquo. Eva ormai non cercava neanche più di comprendere il significato delle parole del racconto, assorta com’era nell’inquieta osservazione, mentre per l’angoscia conficcava le unghie nel guscio di noce. A un tratto sentì calare sulla sua spalla la mano di lui, che ora la stringeva in un abbraccio talmente forzato che sembrò meccanico. Si sentì tra le braccia di un morto. All’improvviso egli si voltò: le sue pupille ora erano grandi ed Eva poté guardarci dentro, ma non trovò niente: erano buchi. Non vi era un’anima che riposasse sul fondo.
In quel momento le sue labbra inerti, mosse da forza inerziale, si unirono a quelle di lei in un imprevisto, freddo bacio.
Eva si ritrasse sconvolta e lui le tese il libro con un gesto deciso, perché leggesse l’ultima frase. Così con voce tremante Eva pronunciò:
“Tu che lasci il vento del sogno
risuonare dentro di te,
esile giunco,
adesso ascolta il rumore del nulla
sfibrarne le note, logorare il suo canto.
Tu che plani sulle ali delle tue vacue illusioni,
perdile!
Accetta che esse precipitino
in questo gelido abisso.”
I suoi occhi si posarono colmi di pianto su di lui, ma scorsero nella sua mano l’altra metà del guscio.
Allora si aprì in lei una voragine. Un vuoto le si aprì nel cuore più grande di quello racchiuso nel guscio, e più grande ancora di quello che aveva visto nella stanza sgombra. Un vuoto senza nome e buio come le strade desolate, inesauribile e profondo più dei neri solchi che scavavano gli occhi di quell’essere senz’anima.
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