Articolo di Matteo Scantamburlo
L’arte, tra le sue innumerevoli virtù, ha la straordinaria capacità di entrare in contatto con il suo fruitore e di influenzarlo nel profondo dell’animo, producendo un sentimento che può valere per un istante come per tutta una vita.
Gli effetti che l’opera esercita sull’animo umano sono stati materia di studio e di discussione letteraria fin dal i secolo d.C., periodo di pubblicazione del trattato anonimo Sul Sublime, testo di estetica ante litteram riguardante la capacità dello stile retorico omonimo di stimolare in chi ne fa esperienza meditazioni alte ed eticamente grandi tramite il “pathos”, ossia la forza irrazionale dell’animo che genera l’arte.
Fu poi all’inizio dell’Ottocento che il concetto di sublime venne riportato alla luce in arte e in letteratura come tematica chiave del romanticismo.
Certo non in maniera univoca, poiché se per i tedeschi tale nozione andava di pari passo con quella del bello in una comune evocazione dell’infinito, per i “colleghi” inglesi esso rappresentava un sentimento autonomo, connesso all’eccitamento e al timore suscitato dalla natura. Ecco quindi che Caspar David Friedrich nei suoi quadri rappresenta un cosmo che non è mai ostile all’uomo ma che risulta immensamente più grande di lui, significando insieme il suo limite e la sua possibilità di attingere all’infinito; è invece una natura terrificante quella di Joseph Mallord William Turner, che tramite mari burrascosi, tempeste di neve o violenti incendi spaventa l’uomo ma al contempo lo affascina. Comune a entrambe le scuole è però la tensione titanica dell’essere umano verso l’immenso e l’incontrollabile, e certo il concetto di titanico ce l’avevano in mente anche i Godspeed You! Black Emperor durante la realizzazione della loro opera magna, Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven, album del 2000 formato da quattro tracce per una durata complessiva di 87 minuti. La durata media dei brani e il nome pretenzioso tanto della band quanto del disco rendono facilmente intuibile che si parli di un prodotto generalmente di nicchia, nicchia che però, anche grazie all’ampio consenso critico registrato dall’album fin dalla sua uscita, col passare degli anni ha raggiunto dimensioni sempre più importanti, portando i GY!BE a diventare una band di culto tra gli appassionati.
Lift infatti, per quanto sperimentale e apparentemente poco accessibile, è un disco che riesce a colpire anche l’ascoltatore inesperto, gettandolo in un’atmosfera che sembra spingere la musica ai suoi limiti più estremi, letteralmente al sublime (sub limine, “sotto la soglia”), e portandolo ad allargare i propri orizzonti musicali, offrendo un’esperienza unica. Il brano che incarna al meglio la proposta della band canadese è probabilmente Sleep, suite di 23 minuti iniziante con il monologo di un vecchio, che con voce tremante di dolcezza mista a malinconia rammenta i giorni trascorsi in gioventù a Coney Island, luogo al tempo tanto bello da essere soprannominato “il parco giochi del mondo”, ma che ora è soltanto l’ombra di quello che era all’epoca – decadenza evidente, secondo l’anziano, nel fatto che ormai nessuno dorme più sulla spiaggia dell’isola come era solito fare lui. Quest’intro apparentemente sibillina non è in realtà legata a una narrativa comune dell’album né cela dietro di sé un particolare significato astratto, bensì ha lo scopo di indurre l’ascoltatore a un senso di nostalgia attraverso la voce del vecchio. tale sentimento continua inevitabilmente appena dopo il monologo con lo struggente ingresso degli archi, che insieme agli accordi seguenti marcano l’inizio della composizione con un’andatura lenta e dal ritmo alternato, ma nella quale è già udibile in lontananza la melodia di chitarra che contraddistinguerà il pezzo per quasi tutta la sua prima metà.
Tale motivo è distante ma ruggente come un fulmine che preannuncia l’arrivo di una tempesta e richiama subito l’attenzione dell’ascoltatore dai cullanti violini che l’avevano accolto, continuando ad aleggiare sul pezzo anche nella sezione successiva, in un’alternanza di accordi e batteria che si ripete insistentemente in una sorta di climax crescente, al culmine del quale si ha il devastante ingresso della chitarra solista. La melodia finora udita solo sullo sfondo investe la canzone come un fiume che esce dagli argini, riversandosi sull’ascoltatore in tutta la sua stordente bellezza, strabordante e avvolgente come una tempesta di Turner. In questo turbine sonoro l’infinito sembra divenire percepibile sotto forma di musica, è un sublime dinamico, che si manifesta tramite la potenza e la grandiosità della composizione musicale portando a toccare le vette che questo medium può raggiungere. Ma dopo la tempesta c’è la quiete, dunque al sublime dinamico segue, per usare terminologia kantiana, quello matematico, ed è proprio questo quello che succede in Sleep dopo il devastante assolo, al termine del quale non si sente altro che una serie di accordi ripetuti insistentemente in un’atmosfera distesa, di pura contemplazione e riflessione, rianimata dal suono ripetuto di un campanello, che con la sua melodia dolce dà nuovamente ritmo al pezzo, venendo poi raggiunto anche dalla batteria.
La suite ricomincia dunque a marciare e il ritorno del violino riporta la meraviglia nelle orecchie dell’ascoltatore, conquistandolo non più con la potenza ma con la leggerezza e facendolo fluttuare soavemente per tutto il resto del brano, che si chiude quasi inghiottendo l’ascoltatore col suono distorto e vorticoso, ma insieme conciliante, delle chitarre. Giunti alla fine della cavalcata si fa fatica a credere che siano passati ben 23 minuti, ma constatando che in Sleep l’immensità del contenuto supera di gran lunga quella della durata, anche un numero del genere non ci spaventa poi così tanto; e poi, d’altronde, cos’è il sublime senza un po’ di paura?
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