Sicilia, jazz e doppi registri: “Pezzi della Sera” di Marco Castello

Articolo di Matteo Scantamburlo

Entrando in un nuovo anno, si è soliti tirare le fila di quello precedente, abitudine che diventa quasi necessità per molti appassionati di musica, in particolare per quelli (e non sono pochi) accomunati da una certa tendenza alla sistematizzazione, che li porta a ordinare gli ascolti dell’anno passato in svariate liste e classifiche. Ovviamente rientro nella categoria appena descritta, e rivolgendo l’attenzione alle uscite che più mi avevano colpito nel 2023 non avevo grandi dubbi su quale album fosse quello che mi aveva colpito di più, ossia 93696 dei Liturgy. Un disco titanico, impegnativo sia per estensione che per ambizione, che mi sembrava non avesse rivali all’interno dell’anno appena concluso, anche perché va ammesso che non ero andato poi così in profondità nell’ascolto di nuove uscite. Ma ecco che, varcate da poco le soglie del 2024, quella che sembrava una convinzione viene scalfita da una sorpresa, un fulmine a ciel sereno che mi coglie sinceramente impreparato: mi imbatto infatti, attirato dall’entusiasmo che esso aveva prodotto presso alcuni amici, in un album italiano uscito a novembre dell’anno passato, Pezzi della sera di Marco Castello, cantautore siciliano mai sentito prima. Nonostante un’iniziale titubanza, dovuta alla poca stima che nutro nei confronti dell’attuale scena cantautorale nostrana, decido di fidarmi dei suddetti amici e ascolto il disco, aspettandomi, visto il titolo e la data di pubblicazione in stagione quasi invernale, un progetto dal songwriting introspettivo e dalle tinte crepuscolari. Quale sorpresa, poi, nello scoprire giri di basso dal sapore funk, tastiere di eterea leggerezza e squillanti innesti di tromba alternarsi di canzone in canzone in climax ascendenti di clamorosa qualità compositiva. L’album è una rivelazione, straordinario per la sua capacità di coniugare una consapevolezza musicale da polistrumentista consumato con una scrittura attualissima, ironica e dissacrante, dando vita a brani di irresistibile leggerezza, freschissimi e incalzanti, ma lontani da ogni impressione di frivolezza. Marco Castello riesce infatti a muoversi con disarmante facilità tra diversi registri: il sapore anni ’70 di molti pezzi è innegabile, ma nessun riferimento appare nostalgico, bensì perfettamente integrato entro un orizzonte progressivo che sfugge a qualsiasi categorizzazione di genere, sia essa quella del funk, che pure è presente nel ritmo, del jazz, certamente parte della formazione del musicista, o ancor meno quella del termine ombrello per eccellenza, l’indie, a cui però l’autore strizza l’occhio per quanto riguarda certe immagini e alcuni cliché di scrittura.
In parziale contraddizione con queste premesse è il brano che apre il disco, Porci, già incentrato sul dialogo tra chitarra acustica e tastiere ma particolarmente sobrio e garbato nel suo elegante progredire. Se si parla solo in parte di contraddizione è però per il fatto che anche questa sofisticata intro si esprime attraverso quel doppio registro che risulterà il fil rouge dell’intero album, con Marco Castello che introduce fin da subito due elementi ricorrenti della sua poetica: la tematica dell’amore carnale e il dialetto siciliano, fattori che contribuiscono a sottrarre il brano da ogni rischio di distanza intellettuale, rendendolo invece vivo e concreto nella sua mondanità. Senza intoppi risulta dunque il passaggio da questa canzone alle seguenti, Beddu e Polifemo, leggerissime e inequivocabilmente estive nella melodia e nelle immagini suggerite, ma tanto ricche nei suoni e pulite nella produzione da sembrare tutto tranne che canzonette. In entrambi i pezzi è insistente il richiamo della Sicilia: il primo è interamente in dialetto, il secondo gioca sul contrasto tra il glorioso passato greco dell’isola e il degrado del presente, sebbene in esso ogni accenno di riflessione finisca per sfociare in una danza spensierata, tanto sono orecchiabili e travolgenti gli arrangiamenti di archi e la sezione ritmica. Sulla stessa linea si colloca Dracme, dove è bellissimo l’uso di tracce vocali sovrapposte, mentre Sul Serio rappresenta il momento più anomalo del disco, un brano lento, che per quasi metà della sua durata ha come unici componenti la chitarra e la voce, ma in cui l’artista non rinuncia del tutto alle trombe e alle tastiere. Il risultato è un pezzo di notevole qualità ma forse un po’ incompiuto, che nel suo rimanere coerente con il resto dell’album non riesce a essere l’intermezzo cantautoriale che le sue prime note sembrano annunciare, anche per via di un testo sì vivace, ma che, tendendo al concreto - e in certe parti addirittura al turpiloquio - stride un poco in quella che, in fin dei conti, è una canzone d’amore. D’altronde, va ripetuto, l’indole di Marco è quella del musicista, dato tanto più evidente in quello che è forse il brano manifesto del disco, Pipì, veramente irresistibile nel suo unire alla solita ironia la vena malinconica che si avverte nella melodia, alle mondanissime scene delle strofe la sospensione quasi eterea del ritornello. Musicalmente, poi, un trionfo, con i suoni già sentiti nei pezzi precedenti che convivono senza compromessi e a cui si aggiunge addirittura un assolo di chitarra nel finale, altra grandiosa dimostrazione dell’eclettismo musicale di cui questo album si fa alfiere.
Meno leggere forse le sonorità della triade Empireo Risolti-Narrazione-Copricolori, con la prima che rimane sempre piuttosto orecchiabile ma tende all’elettronica, mentre le altre due introducono novità significative all'interno dell’ecosistema dell’album. In Narrazione la formazione jazz dell’artista esce fuori in un brano riflessivo, dove il sottofondo di malinconia già rintracciabile in Pipì si accentua ulteriormente, mentre Copricolori si muove su martellanti giri di basso tra squilli di tromba e momenti dal ritmo quasi dance, coinvolgenti e accattivanti quanto le schitarrate della prima metà di disco ma diversi nella sensazione: non sembra più di essere in spiaggia, ma piuttosto di vivere la vita notturna assecondandone il flusso di locale in locale. Un altro pezzo, questo effettivamente “della sera”, che va dunque ad arricchire il mosaico di vita quotidiana tracciato da Marco Castello, ormai giunto alla sua compiuta realizzazione.
L’album si chiude con Melo, brano dalla melodia semplice, beatlesiana, che racconta il rapporto tra un cane e la sua padrona visto dalla prospettiva del primo, in un omaggio verso l’animale sicuramente sentito ma che non prova neanche a nascondere le allusioni sessuali che costellano il testo. Chiusura curiosa, un po’ spiazzante a dire il vero, ma indubbiamente di ottima caratura, degna dunque del resto dell’album, che nel suo complesso risulta amalgamato in maniera perfetta, omogeneo nella proposta ma articolato in momenti differenti tra loro, con la qualità compositiva a fare da minimo comune denominatore. Un prodotto fresco Pezzi della sera, come non pensavo ce ne potessero essere in Italia, un disco che, a prescindere dalle direzioni che prenderà l’artista e dalla fortuna che avrà (o non avrà) presso certe comunità di appassionati, rimarrà ben impresso nella memoria di chi l’ha amato fin da subito. E sicuramente, almeno ad oggi, rimane il mio disco dell’anno 2023.