Una storia di vittime e carnefici: Roderick Duddle – Michele Mari

Recensione di Carlo Danelon

TEMPO DI LETTURA 4 MIN.

“Roderick Duddle”, di Michele Mari, è un romanzo tanto formalmente inattuale quanto intrinsecamente attuale.

La struttura narrativa, infatti, è molto complessa, ben più articolata di quanto siamo abituati a vedere nella letteratura contemporanea, quanto meno in quella italiana. 

La continua variazione degli oggetti dell’attenzione del narratore, che è sempre lo stesso ed è sempre così esterno da coincidere, talvolta, con lo scrittore stesso, oltre alla serie di cinematografici ingrandimenti che ne deriva, rivelano la maniacale cura dell’autore nella pianificazione del testo. Non solo: altrettanto sui generis, per quanto riguarda l’epoca e il contesto editoriale cui questo romanzo appartiene, è la particella fondamentale dello scritto: la parola. 

Nelle scelte lessicali, infatti, Mari rivendica tutta la profondità della lingua, che si dispiega nella sua ampiezza tonale e temporale. Lo scrittore stesso, in un’intervista, afferma l’importanza della conoscenza diacronica del linguaggio per chiunque voglia cimentarsi nell’atto del narrare: solo con un vasto ventaglio di possibilità linguistiche a disposizione, egli potrà individuare le migliori soluzioni espressive per il proprio fine narrativo. 

Così quando a parlare – e ancor più a scrivere – è Jones, un losco figuro

proprietario di una bettola che offre ai poveri clienti birra e prostitute, il registro è molto basso, si rilevano spesso errori grammaticali. Al contrario, il narratore si esprime sempre con raffinatezza linguistica e rigore sintattico, e così anche i personaggi più colti della storia. Il lettore si trova, dunque, davanti a un esempio di plurilinguismo.

Tuttavia trattare il romanzo in termini esclusivamente stilistici sarebbe davvero riduttivo. Per quanto l’aspetto formale del testo sia degno di nota, infatti, è innegabile che Roderick Duddle sia soprattutto un testo di slancio ideale. Possiamo affermare, anzi, che il contrasto tra la tesi filosofica di fondo, tanto vicina all’esperienza empirica del mondo, e il plurilinguismo già citato, è la caratteristica fondamentale del libro. Se da un lato ogni personaggio rivela, attraverso il proprio modo di esprimersi e di pensare, l’estrazione sociale e l’ambiente culturale di appartenenza, dall’altro il sostrato ideologico del testo è uno, e dimostra che le ragioni che muovono ogni figura ad agire sono, in fondo, le medesime.

Scopriamo allora gli unici valori che tutti i personaggi della storia, e quindi, in una riflessione più ampia, tutto il mondo del giovane protagonista, nutrono: la ricerca del denaro e la soddisfazione del desiderio sessuale. La prima, motivata dalle prospettive di guadagno che la malattia di una ricca signora inglese lascia intravedere; la seconda, spesso inappagata e sempre tesa allo sfogo di ogni inconfessata perversione.

Ci si potrebbe spingere a interpretarle come null’altro che due aspetti dell’unico, medesimo movimento.

La fame di ricchezza e la sete di sesso, infatti, s’intrecciano talvolta così fittamente, si somigliano in maniera così palese per la loro forza puramente terrena, che potrebbero essere assimilate. 

Alcuni personaggi paiono mossi dall’una, altri dall’altra, altri ancora da entrambe al contempo o a fasi alterne. Ciò dipende talvolta dal ruolo sociale, talvolta dal carattere personale di ognuno. Eppure il principio della soddisfazione terrena dei propri desideri di ricchezza o di piacere unisce e guida nell’azione, al di là di ogni maschera sociale, tutti i personaggi.

Tutti, o quasi: chi si rivela indenne da queste brame costituisce una piccola minoranza all’interno della vastissima umanità che popola un romanzo ricco di antagonisti. Significativo, in tal senso, è il fatto che a nutrire questa piccola schiera siano spesso fanciulli e anziani: i due bambini protagonisti, fonte di tanti intrighi e ingiustizie, oggetti di tanto odio e perfidia, inconsapevoli e innocue vittime del mondo; il marinaio Jack, un vecchio pescatore dai sinceri sentimenti di affetto e solidarietà; Lennie, un ragazzone con un grave handicap mentale, e la sua povera madre; Betty, una debole donna di servizio presso la casa dell’anziana signora; alcuni marinai della nave Rebecca, compagni d’avventura di Roderick.

Ciò che accomuna questi personaggi, non v’è dubbio, è la debolezza,

la fragilità d’un angolo di mondo ai margini della vicenda centrale, ossia la lotta per l’ottenimento dell’eredità della ricca signora in punto di morte. A pagare le conseguenze di questa spietata faida sono, com’era inevitabile, i due bambini-protagonisti: Roderick Duddle e Michael, pedine inconsapevoli di un sanguinolento gioco a loro precluso. Da una parte, la grazia con cui Mari tratteggia i deboli individui in balia degli eventi è straordinaria; dall’altra, il realismo spudorato con cui sono descritti gli intrighi tra i personaggi principali pare davvero incisivo.

Per contrasto, come un atto di momentanea uscita dallo stato di minorità cui è condannato, l’unico gesto di Lennie che emerge con forza dalla monotonia della sua convivenza con la madre non fa che elevare la purezza del suo disinteresse al grado di bontà d’animo.

La ragione dell’inaspettato fatto va individuata nel fondamentale valore assunto nel testo dall’amicizia, tema allo stesso tempo centrale e marginale. Centrale perché molto presente: Roderick ne darà prova diverse volte, stringendo amicizie autentiche col marinaio Pip, con Jack e con Michael – ancora una volta, il vincolo affettivo accomuna giovani e anziani, ugualmente impotenti di fronte alla tracotanza della vita –. Marginale perché sempre sovrastato dall’efficacia delle congetture più triviali e delle più terribili bassezze. 

Con il finale del romanzo, un perfetto esempio di doppiezza,

Mari suggella il ritratto di una società cui il lettore non può che rivolgere uno sguardo pietoso. A una prima lettura si pensa di scorgere, in esso, il trionfo della giustizia, ma nel corso del romanzo l’autore ci ha insegnato che a trionfare, in questo mondo, è il male. 

Così l’espediente del silenzio, sapientemente utilizzato, terrorizza: la storia, che sembra essersi or ora conclusa, è insieme appena iniziata. E ormai è insita nel tuo ragionamento, mio perfido lettore – per usare un’apostrofe aggettivata come quelle che frequentemente l’autore impiega –, l’ipotesi che il peggio, per chi non lo sappia compiere, sia sempre in divenire. 

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