Recensione di Viola Bertoletti
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“Dalla tua poltrona dominavi il mondo”.
Con queste parole Kafka parla di suo padre, appellandosi a lui tramite la seconda persona.
Lettera al padre è molto più di una lettera: è una confessione, è un’accusa troppo a lungo taciuta, l’ennesimo, fallimentare tentativo (la lettera non venne mai consegnata) di sottrarsi alla totalizzante sfera paterna. Mai come in queste righe scritte all’età di trentasei anni, Kafka ci offre un ritratto tanto lucido di sé, nella sua irriducibile condizione di “figlio diseredato”, come egli stesso si definisce.
Per tutta la sua vita infatti la figura del padre incomberà sulla sua persona come un’oscura nube,
come una perenne minaccia; un’ombra le cui cupe influenze sono capaci di investire simultaneamente passato, presente e futuro.
La concezione freudiana secondo cui la figura del padre riveste per ogni individuo un’importanza assoluta, superiore a qualsiasi altra, si ritrova qui comprovata fino all’esasperazione, poiché il padre risulta essere per l’autore “la misura di tutte le cose”. Il conflitto tra padre e figlio nel caso di Kafka non avviene secondo quanto è teorizzato circa il complesso edipico: il padre assume sì un ruolo fondamentale, se non predominante nella sua infanzia, ma Kafka non sarà mai in grado di ucciderne la figura, provocandone la morte nel suo inconscio.
Al contrario, questo conflitto interno si perpetuerà ben oltre la fase dell’infanzia, fino a portare lo scrittore a concepire la propria morte come atto estremo di liberazione. Così Kafka non vuole uccidere suo padre ma se stesso, in una disperata ricerca di riconciliazione con il Padre. Formulò il proposito nel 1917: “Mi affiderò dunque alla morte”. Questa soluzione, amplificata nei romanzi, è anche riscontrabile nel racconto La metamorfosi, in cui l’autore sotto il falso nome di “Gregor Samsa”, dopo aver assunto la condizione di scarafaggio, si lascerà volontariamente morire di inedia.
La metaforica identificazione con un insetto è ricorrente anche in questo testo,
dal momento che egli si sente costretto dal padre in una posizione di parassita: status aggravato dalla dolorosa impossibilità di dimostrare nei suoi confronti qualsiasi gratitudine.
È infatti un fattore incisivo nella condizione dell’autore la persistente presenza di un profondo senso di colpa, derivante proprio da quest’incapacità di concretizzare il volere del padre, dal quale non riesce mai a ottenerne l’approvazione. Il suo continuo tradirne le aspettative pesa su di lui come un’inevitabile condanna.
Il padre è ipotizzato da Freud come fondatore nell’infante di quello che prenderà poi forma nell’età adulta come il “Super io”. Esso rappresenta la legge, ciò che bisogna fare, il contrario del nietzschiano “Tu vuoi” che consiste nel “Tu devi”. Come espresso ne Il disagio della civiltà, secondo Freud una delle principali cause del malessere sociale deriva dall’influenza di un tirannico Super io, incarnato dalle istituzioni politiche, sociali e religiose che, imponendosi sull’ “Io” con troppa rigidità, provochi nell’uomo moderno un inconscio, smisurato senso di colpa.
Nel mondo letterario kafkiano, come in quello privato, il senso di colpa rappresenta una costante.
Basti pensare al romanzo Il processo che vede l’impiegato bancario Josef K. imputato in un processo e infine condannato a morte per una colpa che non gli sarà mai rivelata. Qui il peso di una colpa inconoscibile appare impressa come peccato originale e si fa condizione umana.
“Da qualunque punto di vista ero colpevole nei tuoi confronti” confessa egli al padre nella lettera, e a questa corrosiva sensazione consegue un sentimento di vergogna e una sfiducia in sé stesso che si porterà dietro fino alla morte.
Il padre si configura così sotto un’innumerevole molteplicità di ruoli, tutti aventi come comune denominatore quello di incontestabile e suprema auctoritas. Egli è inoltre rappresentante di un sistema di valori e disvalori da cui Kafka è escluso, che egli non può condividere ma solo subire.
Grandioso come un dio, spaventosamente potente.
Mostro capriccioso e spietato che domina ogni cosa inglobandola, come Saturno che divora i suoi figli. “Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero.”
Suddito sotto la tirannia del padre, Kafka non riuscirà mai a evadere da questo stato. Egli non avrà mai la forza necessaria per affermare sé stesso in qualità di uomo adulto e di padre a sua volta, rimanendo intrappolato nella condizione infantile, ovvero in un’irrimediabile inferiorità. Non riuscendo ad estromettere la figura paterna dalla veste di autorità, questo infelice “Peter Pan” è destinato a soccombere al suo potere, poiché solo sostituendosi al padre sarebbe in grado di affermare se stesso. Ma diventare ciò che è suo padre significherebbe tradire ciò che egli è, aprirsi a un universo con tutto un immaginario emblematico di valori che lui non vuole e non può abbracciare.
Tutto ciò che può fare è prendere in considerazione le zone che l’immensa mole di suo padre,
disteso sulla cartina geografica, non riesce a coprire. Tra queste regioni incontaminate e sicure c’è quella della letteratura, sempre disprezzata dal padre, che non ne concepisce il valore, poiché, come affermato, egli è nemico del pensiero.
Scrivere diventa quindi per Kafka l’unica risposta possibile, la sola strada percorribile: fuga e salvezza.
La sua luminosa e illuminante produzione letteraria, anche se lui non lo saprà mai, lo solleva così nella gloria di aver lasciato tratti indelebili nel grande libro della letteratura.
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