Schizzo di un dramma troppo borghese
Racconto di Carlo Danelon
Un minuscolo ascensore trainato da stringhe,
un corridoio stretto, tre piani, due ingressi per piano, due vecchi: loro, una donna: lei. Era un labirinto semplice, il suo: era finita nello stipite dell’esistenza.
Si alzò dal divano e si sedette a terra, sul parquet.
Dalle finestre filtravano alcuni raggi di luce. Tra un po’ la luce rosseggerà, s’assopirà, e imbrunirà. E dormiranno tutti. Ma lei no! Eppure sì. Ampie, grigie occhiaie le solcavano la base degli occhi; o, meglio, le avrebbero solcato la base degli occhi. Se solo non le avesse coperte con uno strato di fondotinta pesante almeno quanto il drappo di velluto che seppelliva il pianoforte. Aveva provato a non farlo: un giorno, uno di quei giorni, insomma, in cui non dormiva, e si diceva che non avrebbe dormito, mentre tutti gli altri dormivano e suo marito ronfava, quando tuttavia già l’entusiasmo delle prime notti insonni sbiadiva, quel giorno non si era truccata. Allora erano esplose spudoratamente, sotto i bulbi rigonfi e tondeggianti, occhiaie simili a larghe reti di panno; e le labbra erano secche e grigie e lei non se le era ravvivate, né si era cambiata di veste. Giacché il volto l’aveva implorata di rimediare, lei aveva odiato il suo volto.
Ma anche quella giornata, infine, era trascorsa come ogni altra;
e come sempre suo marito, prima di cena, «stai magnificamente» le aveva detto, e quando si era guardata allo specchio per l’ultima volta, prima di cedere al sonno in un pianto flebile e delicato, s’era tuttavia trovata bella, e perciò s’era infiammata persino di vergogna, e ribrezzo, e sdegno, e le era parso che la trascuratezza fosse l’avamposto della noia, e che per sfuggirvi avrebbe dovuto splendere. Il giorno seguente, perciò, si era agghindata come la regina di Palmira – senza che ciò avesse sortito effetti migliori.
Laura oscillava, senza tregua, da un polo all’altro, e li aveva toccati ormai tante volte,
che nel palazzo fioccavano le scommesse sul suo prossimo aspetto. Quando venne a saperlo, fu pervasa da una gioia nuova e frivola. Le parve, finalmente, che qualcosa potesse accadere, che qualcuno si attendesse da lei ogni sorta di unicità. Ma presto anche questo venne inghiottito dalla noia; lei si stancò, arrivando infine a sentirsene offesa; pure il vicinato si stancò, e smise di scommettere.
E suo marito, il quale aveva seguito con silenziosa apprensione la trama delle voci, accolse la notizia con una certa lietezza. Non voleva altro che il bene di sua moglie, diceva; ma in verità non voleva proprio niente.
Viceversa, Laura voleva qualcosa, una sola cosa; anzi, non la voleva: ce n’era bisogno. Un evento. Una svolta. Un respiro, pensava, sarebbe bastato: purché fuori posto e gratuito, estraneo al ritmo assassino dei suoi affaticati polmoni; ma come, pensava, e dove.
Tutto ciò li rendeva sideralmente distanti.
Ma quel giorno sarebbe accaduto qualcosa: sì, un evento decisivo.
Si alzò dal pavimento e prese a vagare per la casa, senza meta, senza scopo, secondo quel disegno inspiegabile che in ogni caso odiava. Si fermò davanti a una finestra. Al di là del vetro, immenso stava il cielo: null’altro che infiniti strati di aria e nuvole, nulla se non la noia del mondo. Sotto il cielo, tra il marciapiede e la strada, si vedeva un’aiuola. Laura vi scorse dei fiori; si sforzò di distinguerne i petali; provò meraviglia. Ma forse l’aveva simulata: riversava nel mondo tutto ciò che desiderava e non ne traeva una sola goccia di allegria. La vita è veloce.
Fece per uscire; poi, sulla soglia, si arrestò;
infine, richiudendo la porta alle sue spalle, tornò indietro. Ancora avvolta nel cappotto, con la sciarpa mollemente appesa al collo, si abbandonò sul letto. I seni prosperosi le premevano il cuore e lo inducevano a un’affannosa corsa. Basta! Si strinse il torace con quanta forza avesse nelle braccia; contrasse l’addome; irrigidì il busto; il collo teso in uno spasmo tagliente. Tremava tutta nello sforzo. Proruppe in un verso vibrante di costrizione, un grido appena udibile e terribilmente grave. In cuor suo, sapeva di voler spaccare la realtà.
Tuttavia presto si distese, vinta da un senso di stanchezza irreparabile.
Per qualche secondo non vide nulla. Poi, tornò a mostrarsi il soffitto, e la luce che anche in quella stanza filtrava uguale, sempre uguale, dalla finestra, e già volgeva quasi al tramonto. Non lo avrebbe permesso. No! Un altro giorno non poteva finire. Lei era il sole. Lei poteva decidere. Si alzò dal letto. Ancheggiava come una folle e si ripeteva che era troppo, che era scoccata l’ora e adesso doveva agire. Avrebbe voluto mandare in frantumi ogni cosa; ma sempre, appena in tempo, si fermava, perché prima c’era una cornice di vetro, poi la ceramica di sua madre, infine le scatole di legno variopinto in cui riponeva ogni sorta di cose che, sia pure lontanamente e per un attimo, nel mondo, per strada, in giro, non l’avevano delusa. Si fermava a un dito dal disastro, e ciò le provocava un piacere simile all’orgasmo: il potere, l’orlo della catastrofe, il grido.
Ma neppure questo le bastava.
Arrossì. La luce entrava ormai quasi orizzontalmente per le finestre ed entro sera lei avrebbe compiuto la rivoluzione. Per uscire dallo stipite serviva un atto estremo. Non era tempo di desideri. Si disse tra mille respiri che sapeva, ora, cosa volesse: la libertà. Violenza, scatto, azione: arrossì un poco, ma brandì un candelabro ossidato che, in un angolo della sala, mistificava il suo volto.
Aprì una porta. La casa era un labirinto; tutto era un labirinto; chi ce l’aveva infilata? Tre piani, due ingressi per piano, un ascensore stretto, un corridoio, due vecchi: loro, una vittima: lei.
Si spinse fino all’altro capo della stanza, mentre canticchiava tra sé, senza voce, il motivetto di una marcia.
La luce solare, filtrando dalla finestra a fianco al letto, illuminava una dama pallida, imprigionata in un riquadro dorato. Suo marito avrebbe saputo dirne le dimensioni, e il nome della dama; mentre lei la guardava e non riusciva a vedere nulla se non l’oro ineluttabile della cornice, e il formato stretto e la luce della sera che torturavano senza sosta quel volto inumano. S’accasciava, il sole, velocemente come accade negli istanti prima della sera. Laura seguì il fascio di luce con lo sguardo. Il motivetto si ripeteva, perché ella ne ricordava solo una parte, e tuttavia cresceva in intensità e ad un tratto, mentre la luce irradiava la spalliera del letto, Laura capì di averlo udito da suo padre, quando lei era piccola e felice, e questo la turbò al punto che non respirava più, tanto si sentiva stretta e immobile.
Ma il fascio di luce continuò a muoversi e arrivò a colpire il bordo superiore del cuscino.
Il giorno volgeva al termine e lei stava lì, ferma, il candelabro in mano, quando si accorse che sul cuscino, pallido grigio e azzurrognolo, stava il volto di suo marito, e i suoi denti erano gialli e soltanto il giallo risaltava sul cuscino. Russava e nella forma degli occhi, chiusi, c’era la piega spaventosa della rassegnazione. E ora?
«È tutto finito?» sussurrava Laura tremando, mentre stringeva il candelabro.
«È già tutto finito?» sussurrava inarcando la schiena, con i palmi sulla testa e tra le dita, stretto, il candelabro. Rovente, la luce indorava la fronte eternamente madida del pover’uomo. Si direbbe ch’egli pregustasse la propria fine, benché non lo desse a vedere, con una serenità oltraggiosa che pareva tradirlo.
Il giorno volgeva al termine. Se avesse aspettato che la luce lambisse i suoi occhi, si sarebbe svegliato; sarebbe uscito dal sonno e, vedendola accanto al letto con un candelabro alto sul capo, le avrebbe chiesto: «Che fai?» tutto spaventato, o forse, al contrario, «mi fai un favore: sapevo che sarebbe successo»; oppure, ancora, avrebbe potuto tacere e aspettare, con gli occhi limpidi di un santo. Cosa sarebbe successo? Davvero non lo conosceva? In un attimo le parve di vedersi dal di fuori, là, davanti al letto, con il braccio in alto e in mano il candelabro: era davvero così? La visione la lasciò sgomenta, mentre un violento rossore le irrorava guance e fronte e un grido profondissimo le comandava di aspettare, di aspettare.
Ormai il fascio di luce, sanguinolento, colpiva il viso del marito.
Poi, il collo. Infine, senza che egli smettesse di russare, senza che la piega dei suoi occhi cambiasse, senza ch’egli le rivolgesse neppure una parola o mostrasse un segno di terrore, la luce svanì. Una penombra sinistra avvolse subito la stanza. Laura levò un poco lo sguardo, le labbra gonfie e distanti. Dal quadro la donna, pallida, la guardava, ed era lei, ora, con i suoi occhi severi, a chiederle: «Che fai?». Un ricordo: da giovane avrebbe tanto desiderato essere ritratta dal Parmigianino. In un attimo i suoi occhi si sciolsero nel pianto; si voltò di scatto e corse in bagno; girò la chiave. Le lacrime diluivano ogni cosa. Il pavimento, un mare di piastrelle bianche tappezzato di rombi azzurri, s’increspava sotto la lente delle lacrime. Si prese tra le mani la testa, che le pulsava terribilmente.
Era molto stanca.
Si strofinò gli occhi con un fazzoletto di seta cremisi che teneva sempre con sé.
Effondeva un vivo profumo di arancio. Tanto conforto ne trasse, che quando riprese a scorgere, dietro le lacrime, il suo viso riflesso nello specchio, la raggiunse quasi l’impulso di ridere di sé stessa e dei suoi eccessi. Tornava a rimproverarsi tutto ciò; eppure lo sentiva veramente – e lo sapeva, ma non voleva saperlo, lo rinnegava, lo camuffava. E avanti fino al prossimo tramonto.
Preparò una modesta cena. Talvolta era suo marito a preparare il desco, e in quei giorni si sentiva più felice e meno sciagurata; ma non era uno di quei giorni. Quando egli si sedette a tavola, lo guardò per qualche istante come un risorto; anche questo, poi, s’inghiottì la noia.
«Stai magnificamente» le disse.
Ebbe la forza di sollevare gli angoli della bocca.
La sera scivolò senza resistenze sulla marcia degli orologi, e presto fu notte.
Laura era sveglia, tra poco si sarebbe coricata. Come ogni sera, chiuse a chiave la porta d’ingresso. Poi, volgendole le spalle, si avviava verso la camera da letto, quando udì crepitare le corde dell’ascensore. Sussultò. Rimase in attesa, ascoltando i movimenti della gabbia. Senza accorgersene, stava pregando; invano: l’ascensore si arrestò al piano di sopra. Tre piani, un corridoio per piano, due ingressi, un ascensore minuscolo, due vecchi: loro, una prigioniera: lei.
S’infilò sotto le coperte. Suo marito, accanto, dormiva.
Se la luna avesse gli occhi, per un attimo avrebbe incrociato lo sguardo di Laura; presto, però, avrebbe visto i suoi occhioni tondi e neri indugiare sul ciglio inferiore, ondeggiando incerti, qua e là, nella malinconia e nell’incertezza.
Ma la luna non ha gli occhi: nessuno ha occhi per Laura.
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