EDIZIONE SPECIALE
Articolo unico di Carlo Danelon
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Mentre le informazioni sulla pandemia imperversano ancora nella maggior parte degli organi di informazione mondiali, pochi mesi di manovre politiche danno a Putin la possibilità di governare senza sosta fino al 2036.
A gennaio, Putin annuncia una vasta riforma costituzionale.
Il 10 marzo, alla fine della seconda delle tre letture previste nella camera bassa del parlamento russo, la deputata Tereškova propone l’emendamento che rende valevole il limite di due mandati presidenziali consecutivi soltanto dal momento dell’approvazione della riforma. Permettendo così a Putin di ricandidarsi nel 2024 e, ancora, nel 2030.
Poco dopo, è lo stesso presidente a intervenire nella Duma. Sembra quasi voglia rifiutare l’emendamento proposto da Tereškova: sottolinea, per esempio, il valore democratico dell’alternanza di figure al potere; ma poi, all’interno dello stesso discorso, afferma il bisogno di stabilità politica. Il Paese, a causa dell’emergenza economica dovuta al crollo del prezzo del petrolio, attraversa un periodo di crisi.
Afferma che “la Russia ha finito la sua quota di rivoluzioni”:
una frase ambigua che riassume, in verità, un vero e proprio programma politico. Mostrando la ponderatezza di un apprensivo padre della patria, Putin conclude il discorso affermando che, qualora si esprimessero favorevolmente sia la corte costituzionale sia i cittadini, accetterebbe l’emendamento. Al termine della seduta parlamentare, la seconda lettura si chiude con 382 voti favorevoli, 44 astenuti e nessun contrario.
Come prevedibile, l’opposizione chiede di poter manifestare pochi giorni dopo a Mosca, ma non le è concesso: sono vietati gli assembramenti, causa coronavirus. La riforma costituzionale – ormai è chiaro – è un capolavoro politico, e si è entrati nella fase che porterà sino al referendum popolare tenutosi dal 25 giugno al 1 luglio 2020.
Le approvazioni necessarie s’inanellano da allora in un iter procedurale perfettamente concertato. L’11 marzo gli emendamenti sono approvati in terza lettura dalla camera bassa e poi dalla camera alta; il 14 marzo Putin firma la legge di riforma; il 16 marzo non si segnalano obiezioni da parte della corte costituzionale. La quale, del resto, sente la pressione di un presidente che avrà, secondo un emendamento, il potere di revocare le nomine dei suoi giudici. Ma ciò pare ininfluente, e Putin è ormai a un passo dall’approvazione definitiva della riforma che gli permetterebbe di candidarsi per altri due mandati e governare la Russia per trentasei anni, superando per longevità al comando Stalin e avvicinandosi a Pietro I.
Appena un paio di settimane fa, come previsto, la riforma è approvata nel referendum grazie al risultato di 77,9% voti favorevoli contro 22,1% di voti contrari (fonte ANSA). Diversi osservatori e oppositori russi denunciano i metodi adottati per ottenere tale successo: brogli, regali, pressioni.
La rilevanza del progetto stride con la brevità del suo sviluppo: in pochi mesi, Putin ha gettato solide basi per la costruzione di un lungo futuro alla guida dello Stato. La riforma, passata rapida e quasi invisibile agli occhi dell’antico continente, occupato su altri totalizzanti fronti, ha messo a nudo ancora una volta alcuni aspetti del Paese.
Anzitutto, la capacità politica del suo presidente.
Putin incarna, in netto contrasto con la maggior parte dei colleghi occidentali, l’ideale machiavellico del “principe” come figura di potere che non suscita tanto odio, quanto timore. Ufficiale dei servizi segreti sovietici al tempo del KGB, capo del FSB e responsabile del Consiglio di sicurezza russo: il suo curriculum, del resto, non corrisponde esattamente a quello – che so – di un perito odontotecnico o di uno steward, per citare due ingloriosi casi della politica nostrana.
Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua
Machiavelli, Il Principe
Afferma Machiavelli ne Il Principe. Il presidente russo ha fatto proprio l’insegnamento: oggi gode da una parte dell’incondizionato consenso di un numero consistente di cittadini; dall’altra, del timore reverenziale di un folto gruppo di dissidenti.
In fondo non è un mistero che la storia recente del Paese sia costellata di misteriosi arresti e omicidi ai danni di un’opposizione decimata e quanto mai debole, incapace di offrire un’alternativa adeguata al leader di Russia Unita, vittima dell’abilità politica di un “Principe” senza scrupoli che ha fatto di dissimulazione, autorevolezza e tempismo le sue armi vincenti. E proprio perché è ancora amato da un consistente numero di Russi e temuto, a ragione, da molti altri, il referendum è parso poco più che una formalità: un esempio lampante del doppio valore del voto. Simbolo della democrazia e, allo stesso tempo, strumento di ostracismo, d’inganno, di capitalizzazione del consenso, di giustificazione delle più aberranti oscenità.
Al principio del diciannovesimo secolo, dipingendosi unica salvezza per la giovane repubblica reduce dalla rivoluzione, Napoleone si appellò tre volte al voto popolare, e conseguì tre volte un successo schiacciante – anche grazie a brogli elettorali –.
Così Putin:
una figura che ricopre il ruolo di assoluto protagonista nella politica russa e predica l’importanza della stabilità per una democrazia giovane, dal passato burrascoso.
Tuttavia, se ciò s’è verificato ininterrottamente per un ventennio e accadrà per quasi altrettanto tempo, la causa non può che essere bilaterale. Putin, terminato il decennio di crisi che aveva seguito la dissoluzione dell’Unione Sovietica, trovò terreno fertile per dare una guida a un Paese che ne aveva disperato bisogno.
Dopo vent’anni, possiamo affermare che la Russia s’è lasciata soverchiare dal suo dominio e non è ancora in grado di introdurre un cambiamento.
Zarista, imperiale, sovietica: come la Francia di Napoleone, s’è trovata a reggersi su una forma di governo che non conosceva e che, forse con l’iniziale intento di proteggerla, oggi sembra poco incline a conservare. Se si dovesse paragonare a uno dei tre grandi appelli rivolti alla nazione dal generale francese, il referendum indetto da Putin somiglierebbe in particolar modo a quello del 1802: quando Bonaparte, predicando la stabilità dello Stato repubblicano, si fece eleggere dai Francesi console a vita.
Così la Russia, oggi, incerta sul suo avvenire, non può che chiudersi in un immobilismo somigliante, ora più che mai, alla morte.
Nessuno infatti perderà mai né il passato né il futuro, perché ciò che non si ha, chi mai potrebbe togliercelo?
Marco Aurelio
scrisse nel II secolo d.C. Marco Aurelio.
La domanda retorica andrebbe rivolta a un Paese il cui problema politico si può individuare, come testimoniato dalla sua grande tradizione letteraria, nell’incolmabile divario tra governo e popolo, piani alti e dostoevskijano “sottosuolo”, fervore della metropoli e quiete immensa della steppa.
Addentrandosi nella letteratura russa del diciannovesimo secolo,
si possono trovare innumerevoli esempi di una struttura storica che oggi si rivela scoglio insuperato dalla democrazia. Una buona parte della grande tradizione letteraria del Paese è terreno di funzionari, impiegati ed ex impiegati di second’ordine: un sottosuolo lontano da ogni rilevante decisione politica.
La complessa macchina statale coinvolge i suoi abitanti soltanto nel momento in cui li sottopone a giudizio – prova ne sia Raskol’nikov in Delitto e Castigo, ma anche, nella vita concreta, Dostoevskij durante l’Ottocento zarista e i numerosi autori del samizdat nel Novecento sovietico –.
In uno dei più celebri racconti russi del diciannovesimo secolo, Il naso di Nikolaj Gogol’, il senso d’inaccessibilità del potere, la sua ferrea gerarchia, la passività del popolo che tuttora attanagliano la Russia giunge al parossismo.
Il testo narra l’assurda vicenda capitata a Kovalev, funzionario statale con il ruolo di “assessore di collegio”. Un giorno egli, dopo essersi svegliato senza naso, sbigottito, scorge il proprio organo sul volto di un uomo di rango superiore e si chiede: “‘Come avvicinarlo? […] Da tutto, dal copricapo, si vede bene che è un consigliere di Stato. Lo sa il diavolo come si fa!’”. In seguito, udito il surreale reclamo del protagonista, l’influente consigliere afferma: “«V’ingannate, egregio signore: io non appartengo che a me stesso. Inoltre, fra noi non potrebbe correre alcuna stretta relazione. A giudicare dai bottoni della vostra uniforme, dovete prestar servizio in un’altra amministrazione»”.
Ecco: in un Paese diviso tra una maggioranza favorevole a un presidente dal potere “eterno” e una minoranza intimorita, nella Russia di Putin, dove un’alternativa non solo è resa illegittima, ma appare ancora inconcepibile, la popolazione è abituata a prestare servizio in un’altra, periferica amministrazione.
La Russia non ha mai vissuto una lunga fase di partecipazione popolare attiva alla politica.
Con le sue rivoluzioni è solo più volte e per breve tempo risorta da una morte a intermittenza cui regolarmente si abbandona. Una morte che, se prima d’ora c’era qualche dubbio, quest’anno si può considerare riconfermata: “La Russia ha esaurito la sua quota di rivoluzioni” ha detto Putin il 10 marzo, in parlamento. Se accadrà ancora una volta come in Francia, dove al plebiscito del 1802 succedette quello del 1804 con l’ottenimento del titolo imperiale e dell’ereditarietà del potere da parte di Napoleone, la morte del Paese potrà consacrarsi. E continuare fin dove lo sguardo dell’osservatore contemporaneo non riesce ancora ad arrivare:
è già troppo buio, in Russia.
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