Sogno, oscurità e morte nell’arte simbolista
Articolo di Carlo Danelon
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“Il sonno della ragione genera mostri” dichiara Goya nel foglio 43 dei suoi celebri Caprichos:
allarme di un animo sensibile e d’eredità illuministica, sì, ma anche icastica definizione di quel che sembra voler denunciare l’arte simbolista di fine ‘800. La quale, del resto, si esprime presto in larga parte degli Stati europei, dove risponde a un’esigenza espressiva che non mi spingerò imprudentemente a legare per necessità alle condizioni storiche dei territori. È tuttavia utile, nella convinzione che pure queste, in misura più o meno larga, abbiano contribuito a determinarne i tratti, spendere due parole sul contesto storico-geografico in cui l’arte simbolista prolifera con maggior successo.
Bisogna dunque considerare la Francia, intimamente permeata dalle implicazioni socio-culturali di un colonialismo quanto mai tentacolare,
nonché dalle inquietudini di un tempo sospeso tra l’umiliazione nazionale consumatasi a Versailles e un’inevitabile revanche; la neonata Germania unita, lanciata sui binari di uno sforzo industriale e bellico che non poteva non condurre all’escrescenza dei suoi titanismi artistici, filosofici e spirituali; il Belgio, terra percorsa da conflitti interni e, come la Francia, protagonista di una spietata azione di colonialismo; la Svizzera, Stato federale giovane e minacciato da più parti, destinazione inoltre di poderosi flussi migratori.
Questo, in tratti generalissimi, il contesto in cui si diffonde, più rapida e dirompente, una nuova “maniera”
che traghetterà l’arte pittorica dal secolare naturalismo – soprattutto Impressionismo e post-impressionismo – allo sperimentalismo delle avanguardie storiche. Ed ecco che agli antipodi della realtà apollinea di una ricca, luminosa città borghese nascono, tra gli altri, i “mostri” di Odilon Redon, le creature ibride e metamorfiche di Khnopff, le figure di silenziosa violenza di Hodler: deformazioni che non possono sorgere se non dove il raziocinio, e dunque la luce, non giunge. Per echeggiare Goya: nel sonno, nella Notte, com’è nel caso della grande tela (116 x 299 cm), oggi al Kunstmuseum di Berna, che lo svizzero Ferdinand Hodler dipinge a olio tra il 1889 e il 1890.
Prima tessera di una coppia antinomica – quattordici anni dopo, nel 1904, l’artista svizzero dipingerà Il giorno –,
La notte si segnala anzitutto per la chiara rilevanza dell’elemento ritmico nella composizione. Nella tela non c’è profondità: l’equilibrio è garantito da un contrappunto continuo di corpi disposti nell’irreale tendenza alla ripetizione che vibra nell’art Nouveau e affascina, tra gli altri, Puvis de Chavannes – il quale del resto vede e apprezza il dipinto, insieme a Rodin, nel Salon de la Société nationale des Beaux-Arts di Parigi –. Lo stesso valore acquisirà il corpo umano ne Il giorno, dove tuttavia a mancare sono i tratti peculiari della notte, entità fisica e metafisica.
Nel dipinto, tre uomini e tre donne dormono, nudi, sul pavimento, coperti soltanto da alcuni drappi neri.
Sembra di riconoscere due coppie e due individui solitari – un uomo e una donna –, disposti agli angoli della tela in una rigida simmetria speculare. Non è improbabile che a questa composizione, in ambito italiano e con uno schema meno severo, si siano ispirati Felice Casorati per Meriggio (1920 ca.) e Cagnaccio di San Pietro per Dopo l’orgia (1928). Tuttavia nell’opera di Hodler c’è un solo uomo desto, al centro, minacciato dal volume spaventoso che gonfia il drappo nero sul suo corpo: La notte accoglie, nell’oscurità del suo abbraccio, la morte. Il protagonista del dipinto, un autoritratto, scorge la sagoma della presenza spaventosa: in un gesto plastico di straordinaria spontaneità tenta di tirare a sé la coperta – forse per coprirsi gli occhi, forse nell’istintivo impulso alla difesa.
Il suo volto è una maschera d’angoscia.
Il dramma si spande nel contrasto tra questa rumorosa espressione e il silenzio davvero notturno del mondo circostante – dove uomini e donne giacciono nella nudità scultorea dei corpi sani, e dormono. Tra di essi si possono riconoscere Augustine Dupin, madre del figlio di Hodler, e Bertha Stucki, moglie del pittore.
Ma come la notte, nel volume che modella il drappo nero, viene a coincidere con la morte,
così l’atto privato del sonno individuale assume i contorni di una riflessione sulla condizione dell’umanità intera. I tratti del viso del protagonista sbiadiscono nell’espressione animalesca, perché massimamente istintuale, della sua emozione: e nulla esiste fuori di essa, nulla se non la morte, e la solitudine. Altro elemento imprescindibile, questo, della pittura di Hodler, dove l’arte tocca le corde della riflessione esistenziale e si muove con rara audacia sul presentimento di quanto affermerà di lì a poco la psicanalisi.
La morte avvolta in un drappo, infatti, se da un lato sembra l’intuizione di un anticipatore di Magritte, dall’altro esprime, in un continuo gioco di rimandi a piani semantici diversi, l’invasione di una forza estranea alla vita diurna,
razionale, dell’uomo. Notte, solitudine e morte: quando pure non si voglia notare la carica prettamente spaventosa della posa dell’oscura, innominabile figura, si deve sottolineare la possibilità di trasporre su un altro piano, a dire il vero piuttosto letterale, il significato dell’opera: quello dell’incubo, che agghiaccia la sua vittima e lascia indifferenti gli altri, che spesso si esprime sulle scale macabre dell’immaginazione umana.
Tutt’intorno, nei brandelli di pavimento, nelle forme languide e grigiastre dei corpi nudi, ogni cosa è tesa,
nella sinfonia del quadro, alla resa “di una dimensione rarefatta, desertica, lunare,” di “un paesaggio che schiaccia e opprime” (Fanti).
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