Jan Vermeer: silenzio, luce, precisione

Recensione di Carlo Danelon

TEMPO DI LETTURA 7′

L’opera di Jan Vermeer è l’esempio di un’arte che non cambia,

si ripete in una serie di capolavori dove la variazione tecnica è pressoché impercettibile, quella tematica quasi del tutto assente. Non meno monotona è la biografia del pittore. Nato nel 1632 nella florida Delft della Repubblica delle Province e morto nella stessa città a quarantatré anni nel 1675, egli si presta poco, nonostante la morte piuttosto prematura, alle speculazioni biografiche di un’epoca che fatica a rinunciare all’ideale già romantico dell’artista “maledetto”.

Ritratto di Vermeer

Le notizie sulla vita del pittore sono, infatti, assai esigue, né abbiamo alcuna testimonianza della causa del suo decesso. 

Tuttavia è da escludere che sia avvenuto al termine di una lunga malattia: testimonia la moglie, Catharina: “Nel volgere di un giorno, o di un giorno e mezzo, da uomo sano era passato alla morte”. È perciò vano tentare di interpretare la sua opera alla luce di valide nozioni biografiche. Al contempo, è arduo scorgerne in essa: i dipinti di Vermeer ritraggono figure prive del pathos drammatico di chi agisce nel contesto di una storia – biblica o non. Piuttosto, incorniciano istanti eterni, sospesi in una studiatissima armonia compositiva: irreali, si direbbe.

Anche per questo s’è discusso del realismo del pittore di Delft,

che, se può apparire evidente in taluni tratti pittorici di grande aderenza al reale, tuttavia è temperato da una non meno palpabile vocazione all’ideale. Soddisfatta, si è sospettato, sin dalle ambientazioni: si credeva improbabile che gli interni rappresentati potessero essere quelli della casa del pittore, dove crebbero undici figli e al piano terra della quale il padre teneva una locanda.

In verità, questa diffidenza sembra essere smentita da alcuni studi sugli oggetti raffigurati.

Prendiamo ad esempio le indagini condotte sulle tele e gli strumenti musicali che sovente campeggiano nei dipinti di Vermeer. È possibile riconoscervi alcuni quadri reali di Van Loo (1614-1670), Baburen (1595-1624) e Jordaens (1593-1678). S’è notato, inoltre, che la raffigurazione degli strumenti musicali e la disposizione dei suonatori sono molto verosimili; sicché si può immaginare che Vermeer fosse anche musicista o che, perlomeno, avesse avuto modo di copiare dei modelli. 

Nell’inventario dei beni di casa Vermeer, alla morte del pittore,

si legge tuttavia che egli possedeva dei dipinti di Karel Fabritius e di Jacob Hoogstraten, mentre dei quadri riconosciuti nella sua opera non si trova traccia. Né si trova traccia di strumenti musicali. Ma la contraddizione tra la tesi sul realismo dei modelli e il contenuto di una delle poche fonti biografiche è soltanto apparente: l’attività di compravendita di quadri era usuale tra i pittori olandesi del ‘600; l’assenza degli strumenti musicali si può spiegare con la considerazione che la famiglia, ridotta in difficoltà economiche, li avesse venduti.
In ogni caso, il novero di tutte queste incertezze sulla vita privata del pittore sembra pesare enormemente sulla nostra capacità di ritrarlo.

Stradina di Delft

Se si considera attendibile il catalogo di Goldscheider,

sono soltanto tre i dipinti di ambientazione esterna: è nei dipinti di interni che Vermeer si cimenta con inscalfibile sicurezza e pochissime variazioni. Non per nulla la ripetizione quasi ossessiva dei motivi dell’intimità delle mura domestiche, in cui silente, leggera si muove perlopiù la donna, ha indotto Pierre Descargues a ipotizzare un Vermeer “prigioniero, volontario o involontario, della sua casa”. L’ipotesi è senz’altro suggestiva; ma non sarebbe tale, certamente, se non poggiasse sulla ben più salda constatazione della costante compositiva che traspare dall’intera opera di Vermeer. La tendenza a riproporre gli stessi schemi è, in verità, un tratto piuttosto comune nell’arte dell’epoca: ciò che la rende più dannosa per il lavoro interpretativo, nel caso di Vermeer, è la scarsità dei dipinti cui si associa.

L’unione di queste due caratteristiche dell’opera del pittore di Delft,

rende vano ogni tentativo di fornirne una scansione cronologica certa nel segno di qualche evoluzione tecnica. I quadri riconosciuti sono infatti pochissimi (35 secondo Ludwig Goldscheider, 32 secondo P.T.A. Swillens, 36 secondo il catalogo più recente) e non ne mostrano alcuna – eccezion fatta per lo scarto evidente tra il nucleo celebre, quello dei capolavori, e le tre opere giovanili che segnano il distacco interpretativo tra Goldsheider e Swillens. Non solo: appare curioso che, al contrario di quanto solitamente accade, il numero di dipinti di sicura attribuzione negli anni non solo non sia cresciuto, ma sia persino più che dimezzato: nel 1866 Théophile Thoré attribuiva a Vermeer – la “Sfinge di Delft”, come lo chiamava – ben 76 quadri. 

Lezione di musica

Davanti a un’opera tanto esigua, a un autore tanto misterioso,

non ci resta da fare nulla, dunque, se non guardare i dipinti, studiarli nel loro apparire, contemplarli – perché l’arte di Vermeer è, sopra ogni cosa, arte della contemplazione, dell’equilibrio superficiale. Per questo motivo possiamo dire che c’è del classicismo, nella sua opera; anzi, della classicità: nella sua stessa concezione della pittura, nella sua “combinazione strana e unica di morbidezza e di precisione” (Gombrich). D’altra parte, come appare evidente dalla purezza ineffabile dei soggetti, si riconosce nella sua opera pure del simbolismo. E ciò si fa persino palese nell’Allegoria della Fede cattolica (1671-4) del Metropolitan di New York, dove, sul pavimento, si scorgono una mela e un serpente.

Ma, carezzandone molte, Vermeer sfugge in verità a ogni categoria:

il suo non si può dire a pieno titolo realismo, né si può definire, un po’ alla buona, classicismo; e altrettanto sbagliato sarebbe esaurirlo nel simbolismo. Tutto ciò appare, infatti, insufficiente. Quanto si sa con certezza è che se si osservano le sue innumerevoli donne, soffuse di una grazia sottilissima, si percepisce il loro intimo silenzio, il loro candore. E nel complesso disegno di ortogonali su cui Vermeer costruisce i propri quadri la luce vibra e tuttavia, formidabile strumento d’equilibrio, non abbaglia mai. Immediatamente si coglie l’importanza che Vermeer dovette acquisire nel canone dei pittori d’interni danesi a cavallo tra ‘800 e ‘900: su tutti Hammersoi, il “pittore del silenzio”, ma anche Holsoe e Ilsted. 

Nella loro geometrica esattezza, gli interni di Vermeer sembrano raggiungere l’ideale di un’opera completa, finita:

davvero “a posto”, per citare Gombrich. Un’opera in cui l’artista non si tradisce mai: dove lo studio accuratissimo rifiuta il virtuosismo appariscente di molte costruzioni prospettiche contemporanee e si dedica alla resa di un’armonia compositiva senza compromessi. Si è notato, anzi, che Vermeer piega la realtà ai suoi fini compositivi, se necessario. Talvolta, per esempio, lo stesso quadro è raffigurato in scala diversa: così la grande tela sullo sfondo della Donna che scrive una lettera alla presenza della domestica diviene minuscola su quello de L’astronomo.

La merlettaia

Allora può incuriosire che il principale centro di propulsione della fortuna di Vermeer sia la Francia di fine Ottocento,

luogo di convinzioni artistiche apparentemente molto lontane dalle sue. In verità la rivalutazione della sua opera, iniziata dal critico Thoré alla metà del secolo, s’intreccia in modo decisivo alla storia culturale della Parigi del tempo. Così alcuni anni dopo è davanti alla Veduta di Delft (1660 ca.) di Vermeer che, nel quinto volume della Recherche, Proust sceglie di far morire Bergotte; è davanti a una riproduzione della Merlettaia di Vermeer che, sempre a Parigi, Buñuel e Dalì decidono di immortalare la protagonista femminile de Un chien andalou.


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