Racconto di Francesca Mazzella
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Così come hai preso i guanti gialli dal retro della tua cucina per ripulire lo scorcio che hai intravisto di questa grotta, così dovresti riporli.
Invece che cancellare i segni del tempo, preferisco tu li faccia crollare con un’esplosione. Non è sicuro qui. Col cuore incastrato tra sabbia e stalattiti, tutte le mie creature si sono aizzate contro di te. Ci hai tradito. La baia che si presenta libera e rasserenata dalla tua partenza, sconvolge la terra quando conficchi l’ancora tra le ossa di quelle che furono le mie gambe. Vuoi restare furtivamente ma non c’è più terreno che ti mantenga fermo, né alcuno che badi ai tuoi averi mentre esplori con falce affilata le mie spine. Sistemo gli anelli così che tutti si rivolgano al sole.
Sarei dovuta restare a casa? Le scatole e le cantine in cui ho rinchiuso pagine piene di deboli inchiostri sono costantemente sorvegliate in palazzi di regni lontani, dai soli che ancora mi sono fedeli. Su queste scale c’è solo sangue asciutto e non il mio. Quelle sdraio in giardino sono vuote e bagnate, ma io resto tra i loro cuscini la notte, a preferire il freddo gelido dei miei fallimenti al tuo silenzio.
Avrei dovuto cenare lunedì sera in casa di miei compatrioti, invece ho scelto di ritagliarmi e incollarmi in un’altra cucina, dove i sapori del mare sono confusi a quelli della ricca giustizia. Li ho traditi. Sembro sola davanti agli occhi dei più vicini, solo affranta sotto gli archi delle mie giurie. Al muro sono inchiodate le memorie dei miei soldati, che non hai mai chiesto se fossero realmente soldati. Contorti gli angoli dei lenzuoli che non lavavi da anni, li hai bucati e dati in pasto a cani. Ora sono sprovvista di pelle e coperte. Dove sono stati riposti i vecchi asciugamani ruvidi e spessi non te l’ho mai chiesto, convinta che in casa tua sarei tornata presto e con calma. Non posso neanche ripulirmi dalle accuse che mi rivolgo io sola, non posso neanche ripulirti dalle mie ciglia.
Ti articolo in mille lingue ma fai sempre la stessa brutta fine sulle suole delle mie vecchie scarpe. Anche se le ricompro ti ritrovo sempre lì, zittito dalle ceneri mondane di sigarette mai spente.
Mi trattieni, anche se ti ho lasciato, per ripetermi all’orecchio quanto contorti sono i miei luridi discorsi censurati dalla paura di rovinare la tua giovane incomprensione. Quanto semplice deve essere stata la tua gioia di vivere se non hai compreso la mia. Oggi resterei a ieri.
Da giullare racconto come la notte in cui ci siamo conosciuti l’erba è diventata blu e i massi di casa mia sono scesi giù le scale a formare una diga. Così che le lacrime future non potessero raggiungermi e garantirmi che mi avresti riempito il sangue di bugie. Quante strade ho imboccato pur di girare sempre a destra e non fermarmi mai accanto al tuo fianco. Li lascio ridere delle mie stupide speranze tanto quanto ho pianto per te. Il loro gioire mi rammenta che in questa selva di putridi sentimenti sono ancora viva.
Sei aria confusa e inafferrabile, racchiusa nella peggior specie di assenza.
Coperto di superficiali sensazioni odoravi ancora di bei ricordi ma davanti all’indifferenza, anche gli spigoli di stanze vuote disprezzano la laboriosità delle tue perfide comparse. Sistemo gli anelli così che tutti si rivolgano al sole.
Corri e poi strisci sugli orli della tua memoria e giuri che non hai mai abbandonato le tue vuote promesse. Dimentichi che io non ti conosco più e non so riconoscere la verità fra gli inganni dei miei segreti desideri. Anche se menti sono tanto più felice da quando intorno a me servono solo poche parole per scusarmi da futile compagnia. Da quando mi svegliano gli abbracci di gentili saggi, che trovano il tempo di resistere al peso del dolore altrui. Da quando non devo implorare di essere amata
Bramo che gli occhi di sconosciuta gente mi facciano riaprire gli squarci delle mie quotidiane abitudini, per distruggerti davanti ad un pubblico che crede alla mia innocenza.
L’unica pietà che non desidero, ma che mi porta conforto quando ricordo che ancora non ho compreso nulla degli ultimi anni.
Rilego il mio bene su vecchie frecce ammuffite, che colgo da vesti che non hai mai voluto donarmi, e le getto nel mondo, arresa alla consapevolezza che non riceverò mai tue parole. Nuova all’idea di essere stata illusa che ci fosse qualcosa di più profondo di uno scambio repentino e disinteressato di noie comuni, modello le mie convinzioni a immagine e somiglianza di vecchi libri colmi di polvere, per sminuzzare velocemente quel che resta di ormai distanti pensieri.
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