Hurricane – Bob Dylan

Recensione di Matteo Scantamburlo

TEMPO DI LETTURA 3.30 MIN.

Nella foto Rubin “Hurricane” Carter

In questi giorni l’omicidio di George Floyd è sulla bocca di tutti

e probabilmente lo sarà ancora per molto tempo, viste le innumerevoli proteste che si verificano ogni giorno negli Stati Uniti e nel mondo.

La storia statunitense è piena di episodi che hanno visto coloro che dovrebbero rappresentare la giustizia accanirsi ingiustamente contro gli afroamericani. La vicenda Floyd  fa riaffiorare alla mente uno di questi: la condanna di Rubin Carter, un pugile incarcerato per 19 anni a causa di un omicidio che non aveva commesso.

Cantore illustre di questa storia è Bob Dylan, che attraverso le undici strofe della sua Hurricane del 1976 mostra tutta la sua indignazione nei confronti del razzismo che tuttora persiste in America. Il brano si eleva al di sopra delle tante canzoni di protesta di Dylan non solo per la sua interessante componente musicale, all’interno della quale spicca un insolito violino, ma soprattutto per la grande interpretazione del Menestrello, che sfrutta magistralmente il suo iconico timbro nasale per trasmettere la sua rabbia.

Tuttavia la componente fondamentale della canzone è ovviamente il testo,

che fin dal primo verso getta l’ascoltatore all’interno di un’ambientazione da giallo; una donna di nome Patty Valentine entra in un bar dove trova tre cadaveri in una pozza di sangue e un uomo, tale Alfred Bello, intento a scassinare il registratore di cassa. Tuttavia non è stato lui a commettere l’omicidio, il suo compagno di rapine Arthur Bradley ha visto gli assassini, due uomini di colore in una macchina bianca, e riferisce tutto alla polizia, che poco dopo ferma un uomo che sembra corrispondere alla descrizione del rapinatore: è Rubin Hurricane Carter, “Number one contender for the middleweight crown” .

Nel frattempo uno dei poliziotti ha scoperto che uno degli uomini ritrovati nel bar è ancora vivo e, nonostante sia gravemente ferito, è in grado di identificare il colpevole; Rubin viene dunque portato dal superstite, che però non riconosce in lui l’assassino. Quattro mesi dopo la situazione è ancora in fase di stallo: Rubin è a combattere in Sud America per il titolo di campione, Bello e Bradley sono ancora nel giro delle rapine e la polizia continua a trovarsi davanti a un caso apparentemente indecifrabile;

dunque, come la storia insegna, bisogna ricorrere ad un capro espiatorio:

e se nella Roma Imperiale questo infelice ruolo veniva ricoperto dai cristiani o durante il Medioevo dagli ebrei, in questo caso ci troviamo in America negli anni ’60 e il colpevole non può che essere un afroamericano. La polizia si rivolge allora a Bradley per stipulare un accordo; se lui e Bello li aiuteranno a incastrare Rubin (“We want to put his ass in stir, we want to pin this triple murder on him”) tutte le loro rapine passeranno inosservate.

A questo punto non c’è più speranza per il pugile, che davanti a tale ingiustizia appare impotente come un animale in trappola (“Then they took it to the jailhouse where they try to turn a man into a mouse”) e al processo viene condannato per omicidio senza che venga presentata nessuna prova, ma basandosi solo sulle testimonianze di Bello e Bradley (“And though they could not produce the gun the D.A. said he was the one who did the deed and the all-white jury agreed”).

Alla narrazione subentra dunque lo sdegno personale di Dylan, che critica il sistema giudiziario statunitense senza mezzi termini: “How can the life of such a man be in the palm of some fool’s hands? To see him obviously framed, couldn’t help but make me feel ashamed to live in land where justice is a game”, pensieri che in questo periodo circolano nella testa di molti altri americani.

È quindi questa la storia di Hurricane,

che sarà scarcerato nove anni dopo l’uscita di questa canzone, per un totale di diciannove passati in galera, anni in cui sarebbe potuto essere campione del mondo ma che gli sono stati strappati ingiustamente.

Terribile constatare come questa canzone, uscita 44 anni fa, sia ancora attuale, e come storie quali quella di Rubin Carter siano riconducibili a vicende di oggi come quella di George Floyd, “An innocent man in a living hell”.


Puoi ascoltare il brano di Bob Dylan cliccando su questo link!

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