Recensione di Carlo Danelon
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Cox o Il corso del tempo, edito in Italia nel 2018 da Feltrinelli, è un testo dello scrittore austriaco Ransmayr.
Ciò che stupisce il lettore è anzitutto il cadenzato ritmo della narrazione: segue il movimento inerziale della flotta che, solcando acque fluviali tra le risaie, conduce i personaggi principali fino alla cinese Città proibita.
Forse sarebbe accettabile la definizione, per questo testo, di “romanzo orientale”: molto contemplativo, poco denso di movimento e punteggiato qua e là da colpi di scena tiepidi, mai sconvolgenti né spiazzanti. Se l’origine europea dell’autore lo rende più adatto alla stesura di un romanzo di costume, denso di profondi contrasti culturali e riflessioni antropologiche, tuttavia l’autore non resiste alla tentazione di imprimere al romanzo un che di esotico. Il risultato di tale scelta è che nulla in esso pare sufficientemente approfondito. I personaggi, un famosissimo orologiaio londinese di nome Alister Cox e alcuni suoi colleghi, ospiti in Cina dell’operatore Qianlong per arricchire con nuove, prestigiose creazioni la sua opulenta collezione di orologi, non sono vivi nell’immaginazione del lettore. Non hanno sufficiente spessore intellettuale: Ransmayr prova a plasmare nel protagonista un uomo tormentato da una serie di lutti familiari che, in qualche modo, dovrebbero spiegare la sua dedizione al lavoro.
Tuttavia il passato individuale che tormenta il maestro inglese appare sbiadito,
appena accennato: non regge l’intero impianto costitutivo del personaggio di Cox né motiva a fondo il suo agire. Non che dare una ragione della dedizione del protagonista per l’orologeria fosse necessario: lo diventa nel momento in cui si accenna a essa, ma sembra che poi l’autore si trattenga, quasi impaurito, dal fornirne un ritratto completo, privo di idee valide per approfondire la questione. Insomma: lancia il sasso, e ritrae la mano.
Appare evidente, inoltre, che altrettanta superficialità sia riservata, da parte di Ransmayr, nel fornire al personaggio di Alister Cox e ai suoi colleghi riflessioni sulla diversità che fiorisce nel loro presente. Le uniche osservazioni sulla realtà circostante trapelano dalle parole di Chang, il loro traduttore. Eppure, giacché sono pronunciate da una figura ottusamente inclusa nel mondo della corte imperiale cinese, esse sono solo regole, norme, rimproveri e avvisi. Nessun fertile spunto di riflessione emerge dalle sue parole, ma forse sarebbe illecito aspettarsene da lui. Viceversa, stupisce il fatto che non ne emergano neppure da quelle degli altri, forgiati da un retaggio culturale diametralmente diverso. Sembra, piuttosto, che gli orologiai inglesi siano stati subito contagiati dal silenzioso servilismo dei cortigiani locali.
Il motivo per cui Ransmayr abbia optato per questa assoluta reticenza non è esplicito.
Se risiede nella ricerca di quei silenzi che, frequenti, costellano i capolavori della letteratura, l’autore ha semplicemente peccato di superbia. Come rendere immensi i silenzi, infatti, quando nel resto della narrazione non si intercetta il clamore del caos, né alcuna frenetica fuga né alcuna raffinata melodia? Se nelle intenzioni dell’autore, invece, questo mutismo di pensieri e di parole doveva fungere da elemento d’inconfondibile, profondo esotismo, anche in questo caso il suo proposito è senza dubbio fallito: l’ostentata ricerca della particolarità stilistica è ciò che di più occidentale lo scrittore viennese potesse fare.
Il risultato è che Alister Cox o Il corso del tempo conserva nella particolare scelta dell’ambientazione l’unico motivo di interesse. La trama, infatti, si svolge nella misteriosa Cina imperiale del ‘700, terra lontanissima. Ciò che più stupisce della sua società è il valore fondamentale dell’assoluta sudditanza, giustificato a sua volta da un ampio patrimonio mitologico: l’imperatore non è un dio, perché in Terra, ma neanche un uomo, perché eterno. E la netta impressione del lettore è che l’imponenza della sua autorità, come spesso accade, si manifesti nella sua lontananza, nella libertà del suo arbitrio, nel silenzio che lo circonda. Non per nulla l’accessibilità qua e là dimostrata agli inglesi lo priva, a tratti, della sua aurea soprannaturale.
Bisogna tuttavia ammettere che l’incompletezza delle vicende narrate si ritrova anche nell’espediente
– ancora una volta non necessario – usato per presentare la società locale dell’epoca. Soggetto del maldestro tentativo è, anche in questo caso, il protagonista. L’autore spiega l’interesse per la realtà della corte imperiale con l’innamoramento di Cox per la cortigiana preferita dell’imperatore, una certa An, ma questa è presto abbandonata nel nebbioso deposito di esperienze in cui l’umanità dell’orologiaio sembra essersi smarrita.
Il testo si conclude con il ritorno in patria degli orologiai inglesi, ai quali viene dato l’ordine di ritornare in Europa dopo aver costruito il più pregevole orologio al mondo: il perpetuum mobile, un complicatissimo orologio che tenta di realizzare il sogno di uno strumento di misurazione del tempo eternamente affidabile.
Ecco che il narratore esterno, con la partenza di Alister Cox e dei suoi aiutanti, accompagna il lettore lontano dalla maestosa e brutale terra d’Asia. Lontano da quella Cina dove, in fondo, i personaggi del romanzo non lo hanno mai davvero fatto arrivare.
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