Recensione di Viola Bertoletti
TEMPO DI LETTURA 4 MIN.
Guardando Amarcord si ha come l’impressione di avere tra le mani
una di quelle palle di vetro con la neve che fiocca quando le si scuote; si prova la stessa soffusa tenerezza. Eppure questo film è tutt’altro che un giocattolo di intrattenimento.
Nel piccolo paese a cui Fellini non dà nome, l’inverno è finito, ma qualcosa scende dal cielo e non si tratta di neve: sono le “manine” dei pioppi, che scendono dall’alto, sulle vite dei suoi fiabeschi abitanti e sugli spettatori, come a benedire l’inizio di una primavera che si perde nella notte dei tempi e di cui tutti, magari senza saperlo, siamo stati partecipi.
Con la primavera si risveglia così la fauna del mondo felliniano, con i suoi inconfondibili protagonisti; lentamente prende vita il presepe profano, a tratti caricaturato e parodistico, che è stata l’Italia, sotto l’obiettivo deformante, ma profondamente sincero allo stesso tempo, di uno dei più grandi registi di sempre.
A popolare questa atmosfera ovattata, quasi di sogno,
sono personaggi dai colori accesi e di un’umanità disarmante: Titta, il giovanotto ingenuo e affamato di eros, suo padre Aurelio, un anarchico dal carattere turbolento ma buono di cuore, e l’anziana moglie Miranda. Attorno al nucleo familiare si articolano le vicende di personaggi che, ognuno con la propria emblematica presenza, delineano i tratti di una cittadina che si vela di nebbia: la fumosa patina che riveste la memoria.
In questa nebbia di nostalgia si muovono personalità quasi mitologiche: cammina un po’ spaesato il nonno arzillo e sporcaccione di Titta, che si è perso pur trovandosi davanti a casa sua, ondeggiano i fianchi della “Gradisca”, la voluttuosa e inarrivabile “dama” di provincia, sempre a passeggio con il suo basco rosso, si arrampica sull’albero senza voler più scendere “quel matto dello zio Teo” che grida “voglio una donna” e lancia le pietre a chi cerca di raggiungerlo, infine vibra la fisarmonica del suonatore cieco. Echeggiano sopra tutti loro le note malinconiche e incantate del ricordo, che poi sono quelle di Nino Rota, fedele musicista di Fellini.
In questa atmosfera surreale non bisogna però dimenticare che ci troviamo negli anni ’30, conosciuti come gli “anni del consenso”, periodo in cui gran parte degli Italiani acclamò Mussolini e il suo regime.
Il regista racconta il fascismo
con la stessa franchezza con cui descrive la provincia e le sue figure: senza ipocrisia e senza denuncia. Fellini racconta infatti di un fascismo in cui siamo tutti coinvolti e riconoscibili, autore compreso, “nell’ignoranza che ci confondeva”, come dirà lui stesso. Quell’ingenuità un po’ paesana, che trova la sua incarnazione in Titta, uno dei personaggi principali, si riflette nella forma mentis di tutta la cittadina e, simbolicamente, dell’intera Italia. Scrive infatti il regista:
“Fascismo e adolescenza continuano ad essere in una certa misura stagioni storiche permanenti della nostra vita. L’adolescenza, della nostra vita individuale; il fascismo, di quella nazionale: questo restare, insomma, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c’è qualcuno che pensa per te, e, una volta è la mamma, una volta il papà, un’altra volta è il sindaco, o il duce, e poi il vescovo, e la Madonna e la televisione.”
Amarcord non è però un film storico.
È invece un film che rovista nella polverosa scatola della memoria, quella dell’autore come nella nostra in quanto italiani. È un film che rievoca, in uno spazio anacronistico, ma ad un tempo ben inserito nella linea della storia, una collettività che si è affidata alle millanterie della retorica fascista e religiosa, piuttosto che affrontare la storia e la vita in un rapporto individuale di consapevolezza.
Al di là dei suoi errori e della vergogna di cui il fenomeno del fascismo ha dato motivo, questa società del passato suscita comunque nello spettatore un sentimento nostalgico: lontani sono infatti i tempi in cui esisteva una dimensione collettiva, una coscienza comune: un popolare senso di appartenenza che lega tra loro i membri della stessa realtà. Pur negli sbagli e nella sventata incoscienza, quegli uomini erano protagonisti del loro presente, e lo erano insieme. Quasi surreale appare infatti l’autenticità di figure che non possono sussistere se non in relazione e in contatto l’una con l’altra. Si assiste quindi alla testimonianza, poetica ma anche umoristica, di un tempo di reciprocità.
Amarcord è un film che attraversa la storia del cinema italiano come lo scintillante Transatlantico che i protagonisti acclamano sbracciandosi nella nebbia notturna; lo salutiamo quindi con lo stesso commosso trasporto.
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