Articolo di Pietro Phelan
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Campo lungo. Una donna cammina da sola in mezzo a una natura spoglia e silenziosa. Il suo sguardo è torvo ed enigmatico. Si guarda intorno: sta cercando qualcuno, o si assicura di non essere inseguita? Da una fonte ignota, compare una musica. Inaspettatamente, la donna comincia a ballare, ma il suo sguardo rimane perplesso. Dopo essersi coperta gli occhi, prova a sorridere per un momento, ma il tentativo fallisce immediatamente. Il ballo continua, e uno sguardo indecifrabile si rivolge alla cinepresa.Con un singolo movimento di macchina, Bong Joon-ho (vincitore dell’Oscar nel 2020 per la regia di Parasite) mette in chiaro la sua concezione dell’immagine cinematografica come luogo di ambiguità e intersezione di linguaggi. Oltre a prestarsi a molteplici interpretazioni, l’inquadratura iniziale oscilla grottescamente tra il registro drammatico e quello comico. Di fronte a un’immagine del genere, lo spettatore non sa come comportarsi: che contestualizzazione dare a ciò che sta vedendo? Che significato ricavarne? Un senso di spaesamento accresciuto dallo sguardo in camera della protagonista: una sorta di richiesta di aiuto, ma anche e soprattutto una ricerca di empatia, quasi a chiederci di sperimentare la stessa confusione che emerge dal suo volto.
Della donna lo spettatore non conoscerà mai il nome. Si tratta di una madre, il cui figlio, Yoon Doo-joon, è affetto da un deficit mentale. I due conducono un’esistenza umile ai margini della società, fino al giorno in cui Yoon Do-joon viene arrestato per l’omicidio di una ragazza. Da quel momento, la madre, convinta dell’innocenza del figlio, cercherà in tutti i modi di scagionarlo, andando alla ricerca del vero colpevole.
Questo risvolto di trama, tuttavia, si palesa ben presto in tutta la sua atipicità: la protagonista è una detective improvvisata, e i suoi metodi sono tutt’altro che accurati e tradizionali. False piste ed equivoci si susseguono uno dietro l’altro, quasi come se l’ambivalenza di significati della prima inquadratura avesse contagiato ogni snodo della vicenda. I punti di vista si sovrappongono e si scontrano, e la verità definitiva tanto agognata dalla madre continua a sfuggirle di mano e cambiare aspetto.
Nella costruzione del suo intreccio noir, Bong Joon-ho sembra attingere al miglior cinema di Hitchcock: come alcuni dei più celebri film del regista inglese, Madre propone una narrazione incentrata su personaggi presumibilmente innocenti, ma ritenuti colpevoli dal resto della società. Da un giorno all’altro, persone ordinarie si trovano catapultate in una realtà da incubo, in cui nessuno sembra dar loro ascolto, nemmeno le forze dell’ordine, impassibili alla sofferenza e desiderose di chiudere in fretta il caso facendo leva sulle ricostruzioni più semplici e immediate.
Ma le analogie col cinema hitchcockiano non finiscono qui: Yoon Doo-joon, e la sua memoria difettosa, richiamano da vicino il personaggio di John Ballantyne, interpretato da Gregory Peck in Io ti salverò (Alfred Hitchcock, 1945). Proprio come il giovane Yoon, anche Ballantyne è sospettato di omicidio, e una donna (in questo caso, una psicanalista e sua amante, interpretata da Ingrid Bergman) è convinta della sua innocenza. Ballantyne, tuttavia, soffre di amnesia, e oltre a non conoscere la propria identità, non riesce a ricostruire la vicenda incriminante. La dottoressa, quindi, cercherà di far riemergere i suoi ricordi e risolvere il mistero. Improvvisatasi psicanalista, oltre che detective, la madre di Yoon Doo-joon cercherà di fare lo stesso col figlio in prigione. Ma, anche in questo caso, la memoria ha un funzionamento tutto suo e al posto dei ricordi cruciali ne emergono altri, inutili per l’inchiesta, ma atroci per ciò che rivelano.
La dura realtà con cui lo spettatore deve confrontarsi, dunque, è quella di un racconto estremamente soggettivo, in cui i protagonisti-narratori rischiano sempre di risultare inaffidabili: dovremmo davvero fidarci di Yoon Doo-joon, nonostante i suoi errori e le sue difficoltà mnemoniche? E ancora, possiamo identificarci pienamente con la madre o il suo amore per il figlio rischia di accecarla?
Queste domande, così come gli altri temi emersi durante la visione, rivelano la natura psicologica e meta-narrativa del film di Bong Joon-ho: lo spettatore è continuamente portato a interrogare non solo le dinamiche interiori dei protagonisti, ma anche il suo rapporto con essi in quanto personaggi di finzione. Eppure, ridurre la pellicola a questi piani di riflessione significherebbe non coglierne la reale portata.
Se Hitchcock è il riferimento cinematografico più evidente, è altresì vero che Madre ricorda in più frangenti i grandi capolavori del neorealismo italiano. La madre protagonista e il suo amore incondizionato per il figlio sembrano ricalcati sui celebri ruoli di Anna Magnani (Mamma Roma e Bellissima su tutti), e la ricerca infinita, continuamente frustrata, apparentemente incapace di giungere a una conclusione pacificatoria, richiama l’odissea di Antonio in Ladri di biciclette.
Al di là di singoli riferimenti puntuali, Bong Joon-ho sembra far propria la volontà neorealista di raccontare contesti umili e devastati, sia economicamente che esistenzialmente. Se Yoon Doo-joon e sua madre non riescono a farsi ascoltare da nessuno, questo è anche in virtù della loro bassa posizione sociale, la quale frustra sul nascere ogni tentativo di giustizia. Emblematico, in questo senso, il personaggio dell’avvocato ingaggiato dalla madre: un uomo appartenente a un altro mondo, rinchiuso in sé stesso, e completamente assorbito non dal desiderio di ricostruire la verità, ma di trarre un ingente profitto.
Eppure, il neorealismo di Madre è ancora più profondo. A tal proposito, può essere utile richiamarsi alle riflessioni del filosofo Gilles Deleuze, e in particolare ai suoi due testi dedicati al cinema intitolati L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Secondo Deleuze, la specificità del neorealismo va ricercata più in profondità rispetto al piano dei contenuti e può essere racchiusa nell’espressione “cinema della visione”: i film neorealisti, infatti, dissolvono lo schema tradizionale del cinema d’azione (fondato su coppie dicotomiche quale protagonista-antagonista, bene-male), e costruiscono una narrazione fondata su incontri casuali ed effimeri, conferendo così all’atto del guardare una rinnovata importanza. I personaggi, più che agire, vagano, e invece di modificare una situazione data con la loro azione devono limitarsi a osservare e contemplare uno scenario materiale e spirituale disgregato. Il contenuto di questa visione è orribile, intollerabile: basti pensare a Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1948), in cui il bambino protagonista non riesce a sopportare l’orrore della visione, e decide di suicidarsi, coprendosi emblematicamente gli occhi prima di compiere il terribile gesto. Tornando alla prima inquadratura di Madre, in cui la protagonista si copre gli occhi durante il suo ballo grottesco, si comprende come l’ispirazione neorealista non sia per nulla casuale.
Il film di Bong Joon-ho ambisce, quindi, non solo a raccontare una vicenda personale e psicologica, ma anche ad aprire gli occhi su un contesto sociale disagiato, fatto di profonde divaricazioni e soprusi, in cui gli umili sono costretti a vagare e guardare, senza che per loro si dia la possibilità di compiere un’azione positiva e costruttiva. Far parte degli emarginati significa essere in balìa di un potere più grande, non solo quello delle istituzioni, ma anche quello più spaventoso e imperscrutabile di un caso aleatorio che guida in maniera beffarda e crudele le vicende umane. “Hitchcockianamente”, comico e dramma si mescolano in continuazione, al punto che di fronte a certi avvenimenti lo spettatore non sa se ridere o rabbrividire. Ai protagonisti, tuttavia, non sembra essere concessa alcuna risata esorcizzante e l’unica alternativa è quella di coprirsi “neorealisticamente” gli occhi, cercando così di dimenticare quanto si è visto.
La grandezza del regista coreano, pertanto, consiste nel lavorare sui generi e sulla tradizione cinematografica, realizzando un thriller di forte suspense, capace al tempo stesso di veicolare un contenuto critico. Una sorta di “Neorealismo Hitchcockiano”, che agli occhi di Bong Joon-ho sembra essere l’unico racconto possibile per riflettere la realtà contemporanea.
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