Articolo di Lorenzo Mottinelli
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In questo periodo di pandemia
abbiamo continuato la nostra vita affrontando le consuete scadenze imposte dal lavoro o dalla scuola, ma questo è avvenuto con una notevole differenza: svolgere tutti gli impegni interamente da casa.
In ambito professionale da tempo si sente parlare dello smart working, già impiegato da molte aziende all’estero ma ancora poco conosciuto e poco utilizzato in Italia.
Per quanto riguarda la scuola, invece, in nessuno Stato si è mai introdotta, durante la cosiddetta “normalità”, una smart school, la didattica a distanza (Dad) equivalente al lavoro da casa. Durante la pandemia, invece, la Dad è diventata d’obbligo.
Per milioni di studenti e centinaia di migliaia di professori, da un giorno all’altro, le lezioni si sono spostate online, tramite diverse piattaforme di videochat, che avrebbero dovuto riprodurre esattamente le classiche lezioni in presenza.
In un primo periodo questa poteva anche sembrare la soluzione più logica: la scuola non può fermarsi, quindi continuiamo le lezioni con la Dad.
Ora l’anno scolastico si è concluso, quindi è il tempo propizio per chiedersi se questa modalità della didattica a distanza ha portato i suoi frutti, oppure se ne ha bloccato la crescita.
Indubbiamente, studenti testimoni, i programmi sono stati portati avanti, anche se con qualche rallentamento e spesso senza l’approfondimento che richiedevano.
Questo è un chiaro segno del fatto che la Dad è possibile e funziona.
La domanda quindi sorge spontanea: portare avanti i programmi era davvero l’unica cosa di cui preoccuparsi in questa situazione di pandemia e conseguente confinamento?
Evidentemente alle istituzioni scolastiche è parso di sì, come se l’obiettivo principale della scuola sia unicamente l’acquisizione di nozioni, ma forse questo cieco “tirare dritto”, vista la particolarità della situazione, si è rivelato piuttosto inefficace.
Noi ragazzi abbiamo risentito maggiormente del distanziamento sociale: non potendo più vederci con i compagni di classe e gli amici abbiamo infatti letteralmente abusato, per un primo periodo, delle applicazioni per le videochiamate, come se queste ultime potessero effettivamente sostituire l’esperienza reale di un incontro.
Presto ci si è resi conto che non era così, e dopo solo qualche settimana il fenomeno della videochiamata il pomeriggio, per l’aperitivo, per la cena, per la serata è svanito, o comunque è drasticamente diminuito.
Invece, le lezioni hanno continuato occupare le mattinate degli studenti e dei professori, secondo la normale routine.
È un dato di fatto: si crea un nuovo contesto (quarantena), cambiano le modalità di insegnamento (Dad) e forse di conseguenza era necessario cambiare o comunque modificare in parte l’approccio all’apprendimento.
Tuttavia – e questo è il nocciolo della questione – non si è stati per nulla attenti alle modalità.
Gli strumenti digitali offrono tante opportunità, ma allo stesso tempo limitano le potenzialità del classico metodo della lezione in presenza.
Pertanto ci si sarebbe aspettato che la scuola proponesse lavori alternativi,
che solitamente non si effettuano nelle lezioni in classe, per sfruttare al meglio gli strumenti digitali e mantenere alta la partecipazione e la motivazione degli studenti.
Di fatto come si può pensare di effettuare la Dad così come si effettuano le lezioni a scuola? A proporre un sistema di valutazione in gran parte simile, se non uguale, a quello classico con i mezzi offerti dalla Dad? Come si possono svolgere gli stessi programmi con un numero inferiore di ore e con un sistema di comunicazione diverso dal consueto?
Non si può.
O meglio, si riesce, ma il risultato non è sufficiente.
Dovendo accettare i limiti della quarantena, che tra tutti gli aspetti negativi ha permesso a tutti di avere più tempo a disposizione, i professori avrebbero potuto alimentare dibattiti e discussioni, assegnare agli studenti ricerche e lavori da svolgere al di fuori delle lezioni, per stimolare la loro responsabilità, la loro capacità di mettersi in gioco, il loro spirito critico, e al tempo stesso renderli davvero partecipi del programma della materia in questione.
Purtroppo invece molto raramente ciò è stato fatto: si sono mantenute le classiche lezioni frontali, gli studenti hanno svolto le solite verifiche, che online perdono la loro credibilità, e, inoltre, venendo meno tutte le attività extracurricolari, ne ha risentito il rapporto tra compagni di classe.
Ciò che traspare dal modo in cui è stata affrontata questa situazione inedita,
è che le istituzioni non hanno davvero voglia, anche sollecitate dalle occasioni, di migliorarsi, di essere al passo con i tempi e di poter offrire il loro servizio al meglio.
Preferiscono la strada più facile: non aggiornare il sistema e cercare di farlo “andare bene” in ogni contesto, come un bambino che si ostina a completare un puzzle incastrando due pezzi che non hanno nemmeno lontanamente due forme combacianti.
Questo dovrebbe essere inaccettabile sia per gli studenti sia per gli insegnanti.
Così, concluso questo periodo di Dad (probabilmente ne vivremo un secondo), quello che ci resta è poco più di un’occasione mancata di rinnovare l’approccio di studenti e professori all’apprendimento, e uno sconfortante spettacolo di un’istituzione ancorata a vecchie metodologie, che ciecamente non percepisce la necessità di un serio aggiornamento, rendendosi sempre più inadeguata e criticata dai suoi partecipanti.
È questo quello che vogliamo? Non credo proprio: la Dad va valorizzata e utilizzata per tutte le possibilità che offre, inaugurando nuovi stili di apprendimento e partecipazione alla vita scolastica.
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Altre riflessioni sulla Dad da parte della professoressa Daniela Lucangeli, docente di psicologia dello sviluppo e prorettrice dell’Università di Padova.
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