Recensione di Carlo Danelon
TEMPO DI LETTURA 5′
Pochi autori come Massimo Bontempelli hanno offerto di sé un profilo netto alla critica e uno sguardo preciso al lettore:
tratti, questi, sui quali si fondava la sua stessa identità di scrittore. Celebre al suo tempo, poi ignota al grande pubblico del suo Paese per decenni, la sua opera si offre oggi nuovamente all’attenzione dei lettori italiani per iniziativa di una giovane casa editrice, Utopia, che nella prospettiva di riproporla intera ha scelto di partire da Gente nel tempo, romanzo a dire il vero nient’affatto giovanile del 1937 – e ripescato dall’oblio, che io sappia, dalla sola SE nel 2001 –.
Mi si perdoni la facile battuta, dunque, se mi spingo a sostenere che l’uscita di un romanzo al cui centro sta una maledizione che si esprime nell’implacabile scorrere del tempo tuoni,
nell’editoria italiana, come un monito e una minaccia: che non si perda il senso della memoria, che non si bruci ogni cosa all’altare del misurabile e del prevedibile, pure e soprattutto nel multiforme campo della letteratura.
A indurre al moralismo, del resto, è lo stesso romanzo, il quale si apre, con uno dei più begli incipit della letteratura italiana del Novecento,
così: “La Gran Vecchia morì di domenica, 26 agosto del 1900, ultimo giorno d’una settimana che era stata tutta di ferocissimo sole”.
Sin dalla prima riga, tutto è inequivocabile, definitivo e necessario. Il soggetto e il verbo stanno legati l’uno all’altro per il vincolo del gesto che sta nel suo autore senza indugi, senza dubbi, e che soltanto nelle sue determinazioni temporali frena, ma a marce ben definite, scandite dalle virgole, per percorrere la via dell’esattezza.
L’antica corrispondenza di forma e contenuto si è spostata, e questo spostamento è forse uno dei tratti più peculiari di ciò che Bontempelli chiamava “realismo magico”:
a coincidere, adesso, sono la forma e il personaggio. Ed è un personaggio, in questo incipit, a orchestrare la realtà, a modellare il contenuto: il personaggio della Gran Vecchia, figura volitiva sino alla tirannia, schiacciante, grottesca gigantografia d’una matrona ottocentesca. Ella prepara, nella scena che segue immediatamente il brano riportato, la propria morte: comanda i parenti, chiama medico e parroco, ma senza poi ascoltarli: perché, come soltanto Dio può, ella non ha bisogno di confessarsi. E infatti la Gran Vecchia, non c’è dubbio, è la divinità di tutto il romanzo; esce subito di scena, è vero, ma lancia in poche parole (“nessuno di voi morirà vecchio”) la maledizione che innesca la trama dell’intera vicenda.
Dopo un incipit tanto fulminante, che altro non è se non l’atto creatore del mondo narrativo, ogni personaggio, per contrasto, assume una fisionomia:
su tutti, quella del figlio Silvano, quanto di più simile ci sia, nel romanzo, alla paradigmatica figura filiale che al principio del Novecento s’era affacciata in Italia tramite l’opera di F. Tozzi. Figlio dunque inetto, del tutto succube allo statuto pressoché divino dell’ingombrante Gran Vecchia, nonché figlio senza padre che, avendo due bambine, deve svolgere un ruolo che non conosce. Le bambine, Nora e Dirce, avute dalla moglie Vittoria, sono le protagoniste della seconda parte del romanzo, il quale vive scorrendo, con lo sguardo narrativo, di figura in figura, come in una galleria, spostando il proprio centro focale dapprima sulla Gran Vecchia – la cui presenza echeggia, d’altronde, in tutto l’arco del racconto –, poi sul figlio Silvano, dopo sulla moglie Vittoria e, infine, sulle loro bambine, divenute da infanti ragazze e, da giovani, adulte. A scandire il tempo del racconto, giuntura coesiva più che divisiva delle parti, la morte: la quale non è nulla se non l’arma del tempo, che semplicemente esegue – la perentorietà dell’incipit non lascia dubbi neppure ai personaggi – la maledizione della Gran Vecchia. Ogni cinque anni, dunque, la famiglia Medici, prima nel piccolo paese di Colonna e poi a Milano, è perseguitata dalla morte di un suo membro.
A capirlo, deducendo la legge dalla costanza con cui annota le morti premature,
è un parroco dall’aspetto improbabile, un bibliofilo e collezionista d’accatto, cui il lettore è indotto dapprima a non prestare alcuna fiducia, ma che nel prosieguo del testo si rivela l’unica autentica voce di verità.
Una verità certo strana, anzi per la sua stranezza decisamente inaccettabile, che sfugge alle spiegazioni della ragione, eppure si manifesta con l’esattezza inoppugnabile delle leggi di natura. Ecco dunque che il “realismo magico”, come lo stesso Bontempelli definiva il suo stile, diventa, nell’epoca di una società in processo di massificazione, sempre più devota ai vertiginosi sviluppi della tecnica, lo strumento d’elusione del misurabile, del quantificabile, in una parola dell’esplicabile. Insomma, l’arma dell’inquietudine che nella famiglia Medici con moto altalenante si tramuta, avvicinandosi allo scoccare del “quinto anno” dalla morte precedente, in autentico terrore.
Un’arma, questa, che assume l’assurdo per ipotesi e ne porta gli sviluppi alle estreme conseguenze,
sino a intessere un “thriller metafisico” – come l’ha felicemente definito Ignazio Caruso – in cui i personaggi, e Nora e Dirce in particolare, si accingono con il fiato corto ad affrontare una legge ineludibile, d’inumana esattezza, in intimità con la morte, ossia il più inaccettabile eppure certo dei fatti umani. A contatto con il quale, è chiaro, svanisce ogni costume sociale: sicché, avviandosi a un explicit meno noto, ma altrettanto magistrale dell’incipit, i più giovani membri della famiglia Medici, Nora e Dirce, si trovano a convivere in seno a un destino crudele, nell’ambito di una descrizione dell’universo femminile unica – come ha notato Marinella Mascia Galateria nella sua prefazione – per sensibilità e raffinatezza psicologiche.
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