Racconto di Nicola Poidomani Motta
TEMPO DI LETTURA 7′
Il mondo attorno a me stava diventando piano piano sempre più lontano.
Le urla e la confusione della mischia erano lievi rumori ovattati nel caos della mia testa. Non mi preoccupava quello che mi stava accadendo attorno, né mi preoccupavano più gli svariati cocci di vetro sulla strada che a ogni passo minacciavano di distruggere la suola già ampiamente consumata delle mie scarpe. E tantomeno mi preoccupavano le atroci fitte di dolore che tempestavano tutto il mio corpo. Tutte le mie paure di sempre erano svanite. E questo perché, per la prima volta nella mia vita, mi sentivo finalmente libero.
Era tutto iniziato qualche ora prima, più o meno verso il calar del sole, quando come un animale notturno ero uscito dalla mia tana sotterranea per iniziare a vivere la mia giornata lontano dai logoranti raggi solari.
La mia tana era una piccola cantina di appena cinque metri quadrati, illuminata da una lampadina penzolante attaccata ai cavi elettrici scoperti che faceva luce solamente ad un materasso mezzo ammuffito e allo zaino che conteneva tutti i miei averi. Mi ci faceva stare un amico di vecchia data in attesa che trovassi l’ennesimo lavoro di merda che mi avrebbe forse permesso di pagare un letto in un ostello. Nel frattempo stavo recluso in quel buco a dormire tutto il giorno, perché in mancanza di altro da fare, dormire era l’unica cosa che mi permetteva di ingannare il tempo. La verità era che mi andava bene quella situazione. Preferivo restare in quelle condizioni piuttosto di trovarmi un altro lavoro schiavizzante che non mi avrebbe comunque permesso di vivere tanto meglio. Ormai mi ero rassegnato al destino che il mondo, non so per quale motivo, aveva scelto per me.
I programmi per quella sera erano i soliti. Appena uscito ero passato da un supermercato per rubare un paio di bottiglie di vino scadente. Non so perché, ma anche se lo rubavo prendevo sempre quello scadente.
C’era una voce, nella mia testa, che mi ripeteva continuamente che tutti gli altri vini sullo scaffale non me li meritavo. La odiavo quella voce. Ma non riuscivo mai a disubbidirle e così finivo col piegarmi al suo volere. Con il bottino nelle tasche interne della mia giacca mi diressi verso quella piazzetta che ormai faceva da scenografia alla maggior parte degli eventi della mia vita. Era ancora presto, il cielo era stato da poco conquistato dal nero e in giro c’erano ancora un po’ di quelle persone considerate “regolari”. Quelle persone con un buon lavoro in un’azienda rispettabile, con la famigliola perfetta e il macchinone di lusso e un mutuo da pagare. Insomma quelle persone noiose che pur di omologarsi venderebbero la propria anima. Per fortuna c’erano già un paio dei miei squilibrati ad aspettarmi. Dopo pochi convenevoli aprimmo le bottiglie e incominciammo a bere. Alla fine eravamo tutti li per quello. Anche gli altri avevano portato qualche bottiglia. Più tempo passava più gente si aggiungeva. C’erano persone che conoscevo da tempo e altre che non avevo mai visto. E con loro si moltiplicavano anche le voci e le bottiglie. Ma solo dopo che quest’ultime furono svuotate iniziò veramente a scorrere l’allegria.
Le voci diventarono urla e le urla si trasformarono in cori.
Tutti parlavano fra di loro come se si conoscessero da una vita. Si confidavano cose così intime che credo non le avrebbero dette nemmeno ai propri genitori. Si parlava di tutto e di niente. Spesso i discorsi si confondevano, si mischiavano e infine si perdevano definitivamente. Ma a nessuno importava. Eravamo euforici. Era come se il buio che si annidava dentro di noi si fosse completamente riversato nel cielo della notte, lasciandoci addosso un’energia senza precedenti. Eravamo felici e liberi.
Come tutte le cose belle però anche questa era destinata a finire in fretta.
Probabilmente la nostra felicità aveva turbato qualcuna di quelle persone noiose che abitavano nei raffinati palazzi lì vicino. Magari anche loro, come la voce nella mia testa, pensavano che non ci meritassimo di essere così contenti. O magari ci invidiavano perché lo eravamo molto di più di quanto non lo fossero mai stati loro. Qualunque fossero le loro motivazioni, furono così turbati dalla nostra felicità che chiamarono la polizia per togliercela con la forza. Noi non ci accorgemmo di nulla finché non ci ritrovammo circondati da tre pattuglie. Sembrava che reprimere la felicità e la libertà fosse diventata una questione di sicurezza nazionale. I poliziotti si fecero avanti fieri e minacciosi, spinti dalla forza delle loro uniformi, ciecamente sicuri di difendere una giusta causa. Uno di loro si staccò dal branco e venne verso di me.
Non so perché, ma per qualche motivo mi identificò come il capo del gruppo, con il quale poteva trattare.
Ovviamente non si poteva sbagliare di più. Quella massa informe di persone, ognuna mossa dalle proprie pulsioni egoistiche e accomunate prevalentemente da un senso di reciproca somiglianza, non aveva nessun tipo di gerarchia e di sicuro non poteva essere rappresentata da un qualsiasi capo. Nemmeno uno che, come me, ne faceva parte. Il poliziotto iniziò parlarmi con un’aria sicura e di rimprovero. Io non ascoltai nemmeno una parola. Ero abbastanza sbronzo. Tutto quello che il suono della sua voce riusciva a trasmettermi era un profondo e inspiegabile senso d’odio.
Vedevo davanti a me una persona comune, come me e tutti gli altri,
ma che a differenza nostra serviva degli ideali che gli erano stati inculcati fin dalla nascita, i quali lo avevano condannato, con altri miliardi di persone, a una velata e soffocante schiavitù. La persona davanti a me rappresentava quel sistema malato che mi dipingeva come uno scarto dell’umanità solamente perché pensavo in modo diverso rispetto a quanto ritenevano accettabile.
Mentre la voce della legge si faceva più alta e più scontrosa, dentro di me scattò qualcosa.
Tutto ciò che avevo sempre subito e accettato mi apparve insensato e crudele. Ogni farsa a cui avevo sempre creduto si rivelò per quello che era realmente. Quella voce che mi impediva di fare ciò di cui realmente avevo voglia svanì nel nulla. E la sensazione di vuoto che scaturì da questa perdita totale di illusioni, in una reazione priva di qualsiasi logica, mi fece sentire più vivo che mai. Il mio corpo iniziò a fremere, entusiasta di essersi finalmente liberato dalle catene che lo avevano attanagliato fin dal principio.
Poi, in un movimento quasi inconscio, la mia mano si chiuse a pugno e, con una velocità degna di un pugile professionista, volò decisa contro la faccia del poliziotto.
Ci furono un paio di secondi di silenzio totale. Nell’aria regnava una pace surreale, ben consapevole di essere solo un momento di respiro prima dell’esplosione. Ed infine scoppiò il caos. I poliziotti ci si scagliarono addosso furiosi e i miei compagni, ispirati dal mio gesto, risposero prontamente all’attacco nemico. La lotta diventò presto cruenta e più si andava avanti più si iniziava a capire che non ci sarebbe stato un lieto fine. Per nessuna delle due parti. Ma a quel punto a me non importava del risultato. Sapevo che anche quella battaglia non era altro che il frutto di un’illusione creata dall’uomo. Non mi interessava più niente. Adesso ero veramente felice e libero.
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