Racconto di Viola Bertoletti
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Caro diario, mi presento, sono un uomo sui trent’anni a cui tuttavia capita spesso di sentirsi allo stremo delle sue forze;
questo dovrebbe già dirti molto sulla mia persona.
Dicono che l’essere umano sia l’unico animale insieme a certe specie di insetti immondi, curiosa coincidenza, capace di adeguarsi all’ambiente circostante, qualunque esso sia. Ecco, credo proprio di essere l’eccezione alla regola, e se l’uomo di Neanderthal è stato superato dall’Homo Sapiens per via della sua scarsa capacità di sopportare i cambiamenti di temperatura, io posso forse dirmi uno dei pochi sopravvissuti.
Qualsiasi condizione termica si dimostra totalmente incompatibile con il mio assetto fisico e mentale.
I freddi mattini invernali mi provocano insofferenza e artriti reumatiche fulminanti; d’autunno ingiallisco come le foglie maleodoranti dei ginkgo biloba di Piazza Ascoli e le piogge primaverili che sono solite cogliermi all’improvviso sul marciapiede con le buste della spesa non mi hanno mai fatto sentire come in Singing in the rain o nel pineto di D’Annunzio. Non traggo sollievo né dal sole d’agosto né dal vento fresco, dal momento che l’unico soffio che tollero è quello dell’aria condizionata.
In realtà la psicologa mi aveva consigliato di scrivere i miei pensieri
e invece mi ritrovo a sostenere sotto forma di monologo una di quelle conversazioni inutilmente accomodanti che si fanno in ascensore tra vicini di casa, quando i commenti sul meteo possono essere l’unico oggetto di condivisione. O almeno, questo è ciò che capita durante il tragitto in ascensore con i miei vicini: un momento sempre caratterizzato da una quantità di palpabile imbarazzo che cresce in maniera direttamente proporzionale al numero di piani percorsi.
Sapete, credo ci sia molto da dire a partire dai miei rapporti con gli altri inquilini del palazzo che si affaccia su piazza Ascoli al numero 6: un condominio è già un piccolo mondo a sé, con le sue leggi e le sue rogne da spartire con gente con cui si è costretti a convivere per ragioni del tutto casuali. Le persone comuni di solito si prodigano per trovare degli alleati, dei complici pronti a stare dalla loro parte con l’illusoria speranza che essi possano rappresentare una fonte di sicurezza in mezzo alla giungla nera a più piani che è il mondo, esattamente come il condominio.
Per questo unico motivo, unito alla volontà di scongiurare brutti scherzi con la posta, la signora dell’ultimo piano invita a casa sua per il tè la nostra amabile portinaia, un donnone dal pelo fulvo con cui ogni giovedì tra un sorso di tè e un biscottino, la signora Enrichetto si consulta circa la vita privata di tutti gli altri inquilini, dalle amanti del signor Giorgioni fino al codice fiscale della signora Marzini.
Per quanto mi riguarda io rimango del tutto impermeabile a questo discorso sulle alleanze e sulla necessità di fare branco.
Per cominciare, non do alle persone quel tipo di confidenza che permette a due individui di scambiarsi strizzatine d’occhio mentre ci si augura “buona giornata”, o che detta di tenere aperta la porta al vicino che si vede in procinto di entrare. Non ho decisamente la stoffa per ingraziarmi la signora Guadagni rimanendo giornalmente circa venti minuti a sorbirmi i suoi soliloqui quando si piazza di fronte alla porta dell’ascensore. Come dicevo prima, non ho proprio il carattere per sopportare certi livelli di afa, a meno di non rischiare l’asfissia.
Comunque a parte questo, niente da dire sui miei vicini: sono personcine perfettamente anonime e innocue come ce li si può solo augurare: al primo piano c’è un giovanotto appena uscito dalla facoltà di economia, confezionato a puntino per andare a svolgere uno di quei lavori che al giorno d’oggi sembrano essere estremamente richiesti; poi c’è una deliziosa coppietta di sposini che ha appena nidificato al secondo piano; infine c’è una smemorata vecchietta che occupa l’ultimo piano più o meno da quando è stato inventato il ferro. Questi solo gli unici che riesco a riconoscere quando, troppo impegnato a ricordarmi quale sia la chiave, mi ci scontro all’ingresso, prima di correre a rifugiarmi nel mio buco.
Potrei procedere la narrazione della mia noiosissima biografia ma mi sentirei un disonesto, uno sporco calunniatore:
e va bene, confesso, ho mentito. C’è un’altra persona di cui purtroppo ricordo il volto, ah se lo ricordo…probabilmente conoscendo la mia mente malata, mi sono servito di tutta questa premessa solo per arrivare a parlare di questo… In tutti gli ecosistemi, pur armoniosi che siano, si verificano di tanto in tanto delle calamità naturali. Bene, lei si chiama Ambra ed è una celestiale creatura che abita al terzo piano. Si era trasferita qui da poco quando la incontrai per la prima volta. Una sera ero sceso in pigiama a buttare la spazzatura e la scorsi dagli scalini del quarto piano. Fu come trovarmi davanti alle cascate del Niagara. Dico sul serio, lei ha la stessa estasiante bellezza che fa distogliere l’attenzione dal tuttavia consistente pericolo di poter rovinare a picco sulle rocce appuntite o sugli scalini in qualsiasi momento.
Così, ignaro del pericolo, senza perdere tempo, con la scusa di parlarle del condominio le chiesi di uscire a bere qualcosa e lei, che già mi aspettavo si facesse prendere da una malattia improvvisa e misteriosa, incredibilmente accettò.
La portai in un piccolo locale vicino casa,
in modo da evitare di arrivare in ritardo, e una volta seduti al tavolo, cercai subito di portare la conversazione su temi socialmente accettati, come la musica, lo sport e il cinema, sforzandomi di mascherare con la cultura la mia vera natura di complessato.
A tradirmi sono stati comunque i miei innumerevoli tic nervosi, e trovandomi sempre più in imbarazzo dal momento che mi accorgevo di quanto continuare a sistemarmi il colletto della camicia fosse sconveniente, cominciai a farfugliare intere frasi in una lingua molto più simile all’esperanto che all’italiano. Lei mi squadrava esaminandomi come una macchia di muffa e intanto beveva il suo spritz.
Sul tema della musica avevo fatto centro: Ambra vuole fare la cantante.
Non so dirvi che altro ci siamo detti quella sera: la sua voce di sirena mi aveva ridotto in uno stato di torpore celebrale tale da fare concorrenza a un organismo unicellulare. Ma che sirena!? Altro che sirena, avrei dovuto capirlo: le sirene non tracannano lo spritz.
Se si tiene come presupposto che l’ipotesi peggiore è sempre la più probabile non è difficile immaginare il finale di questa storia.
Dopo poco più di una settimana Ambra si è trasferita per motivi sconosciuti e arcani, eclissandosi per sempre dalla mia mediocre esistenza.
Da quando se n’è andata nel mio appartamento c’è un gelo che neanche i caloriferi sono in grado di contrastare. Davvero io non riesco a spiegarmi il motivo per cui se ne sia andata così, senza lasciarmi né il numero né un biglietto, sempre che non ci sia di mezzo lo zampino della portinaia…
Forse non sono un animale sociale, anzi, sicuramente non sono un animale sociale e per questo motivo nella scala gerarchica degli animali mi pongo al di sotto degli insetti immondi, che almeno sanno unirsi in sciame o accoppiarsi.
Diario, diario, come sono confuso. Mi sento come allo stremo delle mie forze, magari continuo domani, addio.
P.S.: E se Ambra fosse stata solo una delle amanti del signor Giorgioni? A pensarci mi sento una tromba d’aria in corpo.
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