CARO DIARIO: IL CINEMA PER RACCONTARSI

Recensione di Giulio Paroli

Tempo di lettura 7 mminuti

La trama di Caro diario è assolutamente semplice: tre episodi della vita di Nanni Moretti (regista e protagonista del film nei panni di se stesso) divisi in altrettanti capitoli. Il primo (In Vespa) tratta della sua passione per la propria moto, con cui guida per le strade di una Roma estiva e quasi deserta; il secondo (Isole) racconta di un suo viaggio alle isole Eolie in compagnia di un amico intellettuale; e il terzo (Medici) riguarda la scoperta della sua malattia, un tumore ai linfonodi.

In Caro diario Nanni Moretti si racconta. L’essenza del film è parlare di sé stesso, delle sue manie, delle sue passioni e dei suoi vizi (ma d’altronde, ci potremmo chiedere, quale regista, in un modo o nell’altro, non parlare di sé all’interno di un film?). La cosa interessante di questa pellicola, però, è l’escamotage del diario, una verosimile finzione che diventerà vera e propria realtà solo nel terzo episodio. Ma cosa vuol dire esattamente per Moretti “raccontarsi”? Per spiegarlo occorre analizzare i tre capitoli del film: ognuno di essi, infatti, mette in risalto una precisa caratteristica della personalità del protagonista.

Nel primo capitolo (In Vespa) emerge quello che è il lato “guardone” di Moretti; potremmo definirlo un voyeur, caratteristica che a dire il vero è propria del Cinema in generale (del resto cos’è, se non un guardone, ogni singolo spettatore seduto sulla poltroncina della sala, mentre spia sullo schermo la vita di qualche altra persona, vera o inventata che sia?). Dalla sua Vespa Moretti guarda, osserva, cataloga (verbo scelto non a caso, ma pensando alle cartelle catalogate di Michele in Bianca); ed entrando, con la scusa di un sopralluogo per il suo prossimo film, in alcune case che dall’esterno lo attirano, lo ammette: è un curioso a cui piace osservare il quotidiano. È vero, questo può essere noioso, eppure… in quella monotona sequenza di case lui coglie qualcosa che gli altri non vedono. È forse questo il grande dono del regista? Vedere oltre le cose?

Ad ogni modo, in mezzo a questo infinito girovagare, a un certo punto si ferma davanti a una piccola festa di piazza in cui un gruppo di persone balla una danza sudamericana. Ballano tutti benissimo, e Moretti manifesta la sua invidia nei loro confronti: non essendone capace e dovendo limitarsi a guardare da fuori, finirà a contemplare i movimenti dei danzatori mentre con ironia commenta la scena. Qui l’ironia, potremmo dire, svolge una funzione consolatrice, un dolcificante che rende quella sua incapacità meno amara. Guardare, contemplare e commentare: queste sono le parole chiavi di questo primo capitolo. Queste avranno il loro apice nel momento in cui, con la sua inseparabile Vespa, il protagonista si recherà sul luogo dell’assassinio di Pasolini, sul litorale romano. Qui Nanni guarderà, contemplerà ma non commenterà con la sua solita ironia: questo è l’unico momento del film in cui il Moretti narratore rimane in silenzio, affranto e amareggiato dall’indifferenza della gente nei confronti di quel luogo per lui sacro.

Isole è certamente il capitolo più divertente. Si perde il conto degli episodi comici ormai diventati cult che qui si susseguono: il collega e amico Gerardo e la televisione, l’isola di Salina dei figli unici viziati, la toccata e fuga a Panarea, Beautiful e il vulcano di Stromboli, la giustificazione omerica di Chi L’Ha Visto? e molti ancora. Ma è su una breve linea di sceneggiatura che dobbiamo focalizzarci, una frase che a un certo punto il protagonista, stanco, pronuncia sulla nave che sta trasportando lui e il suo amico Gerardo sull’ennesima isola dell’arcipelago:

“Caro diario, io sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere.”

Qui emerge tutta l’inquietudine di Nanni Moretti; o meglio, la sua eterna insoddisfazione. Il suo non sentirsi mai veramente appagato, mai veramente a casa, mai veramente sereno. Ed ecco ancora il regista che si racconta: l’isola senza dubbio è la conquista, la meta, l’arrivo. Ma è anche la conclusione del viaggio, il punto finale: la noia, insomma. Meglio l’attesa, il preludio, il mare, da sempre simbolo di libertà; una libertà in cui le persone possono perdersi a girovagare per anni, per poi ritrovarsi cambiati.

Con questa frase Moretti sta raccontando il suo senso di inadeguatezza rispetto a realtà ferme, nette, definite (la famiglia? la politica? Probabilmente ci vorrebbe un trattato solo per rispondere a questi due quesiti), nonché il suo bisogno di cambiare, di muoversi, di sperimentare. Perché solo mentre cambia, si muove e sperimenta egli è felice. E attenzione all’aggettivo: la felicità è un concetto importante e, proprio per questo, non si dovrebbe utilizzare tale parola a sproposito. Non indica semplice serenità o soddisfazione, bensì una categoria superiore, più ampia e gerarchicamente sovraordinata. Una condizione di pienezza completa, che solo il movimento e la trasformazione, rappresentati dal mare, possono dare.

E siamo finalmente giunti al capitolo finale: Medici. Il terzo atto è il più malinconico, il più amaro. Moretti racconta il suo lato più intimo, quello che spesso tutti noi celiamo alle persone: mostra la sua vulnerabilità durante la malattia. A spiazzare qui è la lucidità e la sagacia con cui racconta quello che è stato, forse, il periodo più buio della sua vita: il tono e il ritmo del film, infatti, non cambiano in alcun modo. Rimane quel velo di distacco tipico del suo modo di narrare e raccontare; rimane quella voglia di non prendersi sul serio. Colpisce, in particolare, un’ironia tagliente con cui disegna le sagome dei vari medici con cui è entrato in contatto, ognuno più cieco dell’altro davanti all’evidenza di una malattia così grave. Fra tutti vogliamo citare un dottore che risponde al protagonista

“Io la vedo perdente, guarire dipende da lei, deve pensarsi vincente”.

Un’ironia che, se solitamente risulta essere il tratto comico distintivo della figura di Moretti lungo tutti i suoi film, qui assume una funzione ulteriore e diversa, quella di esorcizzare il pensiero della morte. Se il suo celebre sarcasmo (talvolta saccente, va detto) è sempre stato utile a filtrare la realtà che lo circonda, in questo caso acquisisce una funzione dissacrante, riuscendo a trasformare il dolore e l’angoscia di quel periodo in una divertente storia di sviste e curiose terapie. La ciliegina sulla torta, in tal senso, è l’infinito elenco di medicinali e di ricette di dottori che ancora conserva e che mostra nell’ultima scena, mentre beve un caffè con il solito sorriso sornione che lo contraddistingue.

In definitiva, Caro diario risulta essere davvero il racconto di una persona tramite il racconto di episodi che le sono accaduti; un “metaracconto” potremmo dire, che mette in risalto le caratteristiche principali del regista Nanni Moretti: curiosità, voglia di trasformazione e ironia. O meglio, le caratteristiche della persona Nanni Moretti. O forse, in questo caso più che in altri, i due termini sono sinonimi?